Dall’inizio del millennio il terrorismo islamico sembra prediligere l’Africa centrale come zona di insediamento permanente ben sapendo di poter trovare risorse umane nella gioventù spesso delusa e demotivata. Siamo in una realtà difficile da gestire. Su un territorio ricchissimo di risorse ma con pochi sistemi produttivi efficaci, insistono governi spesso corrotti e/o incapaci di gestire la realtà sociale, politica e economica, degrado sociale soprattutto fra i più giovani, endemica mancanza di formazione culturale, deficit sanitario, delinquenza comune, contrasti etnici e rivendicazioni della terra percepita come bene comune e non come proprietà privata.

Nell’area dell’Africa centrale si scontrano bande armate di pura delinquenza con jihadisti legati ad al-Qaeda o al sedicente Stato islamico, gruppi dediti al traffico di esseri umani con narcotrafficanti legati alle grandi famiglie colombiane o venezuelane in mezzo ad una crescente rivendicazione etnica dei territori.

In questo amalgama, la propaganda jihadista trova facile terreno e si diffonde a macchia d’olio aggravando la già difficile situazione delle popolazioni locali.

Nelle aree in cui il jihadismo è riuscito a instaurare una sua presenza più o meno permanente si sono sviluppati diversi fenomeni eversivi. Il terrorismo islamico attacca spesso anche i propri correligionari accusati di aver tradito la purezza delle origini, ma si accanisce in particolare contro le comunità cristiane che si trovano nell’area. La Francia, a cui si è affiancata anche l’Italia con un piccolo contingente, ha colto la pericolosità della situazione e ha mandato truppe per supportare le forze nazionali ma si tratta di contingenti certamente insufficienti per affrontare la vastità del fenomeno.

Secondo i reports della Fondazione Pontificia Aiuto alla Chiesa che Soffre (ACS), nella Repubblica Democratica del Congo solo nel 2020 sono state uccise circa 1000 persone, e nel 2021 ci sono già decine di altre vittime nel completo silenzio dei mass media locali e internazionali.

Mons. Melchisédech Sikuli Paluku, Vescovo di Butembo-Beni nel Congo orientale, quasi ai confini con l’Uganda, denuncia il ripetersi di massacri da circa 10 anni evidenziando però che dal 2014 si sono nettamente intensificati. Il Governo non cerca di porre un limite a questi episodi tanto che il presule ha rivolto un appello «Spero che ci sia un aiuto per la povera gente, da tanti anni siamo sulla Via Dolorosa, ci sentiamo abbandonati» anche se i responsabili di simili crimini sono ben noti alle autorità trattandosi dei miliziani delle Allied Democratic Forces (ADF). L’ADF nasce ufficialmente nel 1995 in Uganda come gruppo armato islamista ad opera di Jamil Mukulu (oggi detenuto in carcere) ed è considerata organizzazione terrorista dal governo ugandese. Le sue basi principali sono poste nelle zone montuose confinanti tra Uganda e Repubblica Democratica del Congo dove, secondo le indagini del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite vivono tra 1200 e 1500 uomini armati che nell’ultimo decennio hanno intensificato gli sconfinamenti in Congo dove compiono, indisturbati, razzie e violenze di ogni genere, non escluso il reclutamento forzato di giovani e bambini.

In Nigeria la strategia islamista non si limita ai massacri indiscriminati, affianca i rapimenti come forma di autofinanziamento. La violenza gratuita serve ad intimorire, spaventare, sottomettere popolazioni locali costrette alla collaborazione o al rifornimento di beni di prima necessità. Dimostrare di poter controllare l’area attira ammirazione, desiderio di emulazione e garantisce nuove possibilità di reclutamento. I rapimenti richiedono invece un maggiore studio, una programmazione più meticolosa ma sono ugualmente numerosi e si stanno intensificando perché le organizzazioni jihadiste hanno disperato bisogno di finanziamenti. L’unione di rapimenti e di massacri crea una situazione devastante nel nord ovest del Paese.

Tra i rapimenti, ACS in un recente comunicato cita solo gli ultimi che hanno toccato ecclesiastici,:

don John Gbakaan, sacerdote della Diocesi di Minna, rapito e ucciso il giorno dopo a metà gennaio 2020 (così i terroristi dimostrano al governo che fanno sul serio); mons. Moses Chikwe, Pastore dell’Arcidiocesi di Owerri, a fine 2020 è stato rapito da uomini armati e trattenuto per alcuni giorni; padre Valentine Ezeagu, sacerdote della Congregazione dei Figli di Maria Madre della Misericordia è stato rapito il 15 dicembre e rilasciato 36 ore dopo; don Matthew Dajo, dell’Arcidiocesi di Abuja, sequestrato nel mese di novembre e liberato dopo dieci giorni di prigionia. Il 25 marzo 2021, è stato sequestrato un altro sacerdote nigeriano, p. John Bako Shekwolo nella sua casa nel villaggio di Ankuwai, nello Stato di Kaduna, nel centro – nord della Nigeria mentre solo una settimana prima, il 20 marzo, era stato trovato il corpo di don Clement Rapuluchukwu Ugwu, parroco della chiesa di San Marco, a Obinofia Ndiuno, nella Ezeagu Local Government Area, nello Stato di Enugu, rapito il 13 marzo.

Don Leon Douyon, sacerdote cattolico di Ségué nella regione di Mopti in Mali, è stato liberato martedì 13 luglio. Era stato rapito il 21 giugno insieme a quattro fedeli sulla strada che da Ségué porta a San, mentre si recava a un funerale. Quattro degli ostaggi erano stati rilasciati dopo poche ore, ma il sacerdote è stato trattenuto dai jihadisti.

Ultimo caso il rapimento, lo scorso 8 luglio, di suor Francine, a Goma, nella zona orientale della Repubblica Democratica del Congo. La religiosa si stava recando al mercato della città quando un commando l’ha rapita. Si sa che i rapitori hanno contattato le autorità ecclesiastiche della zona e il 20 luglio la suora è stata liberata.

Molte persone comuni vengono quotidianamente rapite da bande rivali fra loro ma gli islamisti sanno benissimo che rapire un sacerdote cattolico fa più notizia e muove il governo a rivolgere loro maggiore attenzione.

Mons. Ignatius Ayau Kaigama, Arcivescovo di Abuja, capitale della Nigeria, in un’intervista concessa ad ACS, definisce questa situazione «un morbo che si sta diffondendo senza che venga fatto alcuno sforzo significativo per arginarlo». Per questo, dopo l’ennesimo rapimento, i vescovi della Conferenza Episcopale nigeriana hanno concordato “all’unanimità di non pagare più riscatti” al fine di non incentivare questo criminale modus operandi. Contemporaneamente il Vescovo invita con forza il Governo a prendere provvedimenti perché la situazione non può essere tollerata oltre: «C’è urgente bisogno che il governo nigeriano affronti la situazione addestrando gli agenti di sicurezza ad agire in modo più efficace».

Altro scenario drammatico in Etiopia secondo quanto riferito da Regina Lynch, project manager della Fondazione Pontificia Aiuto alla Chiesa che Soffre (ACS): «Centinaia di cittadini vengono uccisi nel conflitto in corso nella regione del Tigrai. Nessuno conosce il numero esatto dei morti ma ci è stato riferito che ci sono sacerdoti e leader ecclesiastici fra di loro». La situazione è particolarmente tesa nel Tigrai, area a nord-ovest dell’Etiopia, al confine con Eritrea e Sudan, abitata al 95% da cristiani. Le comunicazioni sono difficili per cui molte notizie non riescono ad essere confermate ufficialmente. Secondo alcune fonti quest’inverno si sarebbe perpetuato un massacro di circa 750 persone anche presso la chiesa ortodossa di Santa Maria di Sion (Maryam Tsiyon) ad Aksum, luogo di culto molto importante perché secondo la tradizione conserva i resti dell’Arca dell’Alleanza. In questa chiesa venivano incoronati gli imperatori del Regno di Axum, potente fino al VII quando fu costretto al declino dalle invasioni islamiche provenienti dal Mar Rosso, e comunque rimasto luogo di devozione popolare che vede migliaia di persone, sia ortodossi sia cattolici, ogni anno radunarsi per pregare.

Secondo informazioni raccolte da ACS, potrebbe essersi verificato un ulteriore massacro con oltre un centinaio di vittime nella chiesa di Maryam Dengelat lo scorso dicembre. 

Sottolinea Regina Lynch «si tratta di un problema politico, ma quanti pagano con la propria vita sono cittadini e civili. È una situazione terribile. La sofferenza di così tante persone deve essere alleviata, e deve essere portato conforto alle nostre sorelle e ai nostri fratelli cristiani che sono isolati dal mondo in una situazione di angoscia, minacciati dalla violenza e dal terrore. Al momento – prosegue la project manager di ACS – è quasi impossibile avere accesso alle informazioni, ma stiamo cercando soluzioni per sostenere la Chiesa locale». 

Il problema è profondamente politico, nasce dalla incapacità dei governi locali di controllare il territorio e dall’assenza delle istituzioni internazionali che non sanno, o non vogliono vedere, quanto la zona sia una bomba ad orologeria per tutta l’area mediterranea e non solo. Si può continuare a guardare l’espandersi del fenomeno che ormai coinvolge paesi tradizionalmente molto tranquilli come il Burkina Faso e il Kenia o altri già problematici come il Mali, il Sudan, il Ciad, il Mozambico oppure, in un eroico gesto di fiducia, continuare a sperare con il Vescovo congolese «che, in futuro, lo Stato si impegni maggiormente per porre fine ai massacri» e che la comunità internazionale apra gli occhi.

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