La Convenzione e il Comitato di salute pubblica avevano pianificato un sistema di spopolamento che non era dettato dalla necessità di domare la rivolta vandeana, ma dall’obiettivo, aprite bene gli occhi, di diminuire il numero degli abitanti della Francia, considerato eccessivo rispetto alla disponibilità di terre da coltivare.
Non si trattava solo di sterminare i ribelli, ma anche di fare in modo che i ribelli avessero la possibilità di sterminare i sanculotti scagliati contro di loro in una carneficina da vendicare: orrori nazionicidi!
Lo spopolamento pianificato non doveva risparmiare i soldati rivoluzionari che generali corrotti sottoponevano alle stesse restrizioni, alla stessa famine, carestia, con la quale uccidevano la popolazione locale, mentre i loro comandanti si lasciavano andare ad eccessi di ogni genere, prima di condurli al massacro.
Sia chiaro, Babeuf mette sullo stesso piano i comandanti delle truppe vandeane e quelli delle truppe rivoluzionarie, ma, pur definendo i contadini di quella regione come “superstiziosi” cattolici, afferma che i documenti che aveva letto gli restituivano l’immagine di uomini “agresti, semplici, buoni, umani, molto vicini alla natura” e quindi predisposti a ricevere “il dogma della libertà”: insomma, perché trucidarli e trasformarli in vendicatori, quando potevano essere convinti della causa della libertà? Nella sua cecità di rivoluzionario, il nostro non poteva comprendere che anche allora c’erano valori non negoziabili e che i vandeani non combattevano solo per la monarchia, ma anche, anzi, soprattutto, contro la violenta scristianizzazione giacobina; combattevano perché provocati: questo sì lo ammette!
Non c’era nessuna insurrezione in Vandea (cap. V, p. 42) se non voluta da “infami governanti” per il loro piano di spopolamento volto ad accumulare terre ricche e produttive, parola del tribuno Gracchus.
Distruzione totale, questo era lo scopo dei generali che operavano in quella regione, non solo combattere i resistenti armati, ma uccidere gli inermi contadini e artigiani davanti alle loro mogli e ai loro figli, poi abbandonati alla brutalità dei soldati fino alla morte, bruciare le loro officine, le stalle, le case, le scorte e poi sgozzare tutti i sopravvissuti: questo legge nei discorsi di Joseph Lequinio, il quale si rammarica di dover mettere da parte i suoi ideali filantropici per compiere la devastazione necessaria della Vandea.
Che rabbia, insieme a te Babeuf, su questo saremmo andati d’accordo! Lequinio aveva pubblicato qualche anno prima Les préjugés détruits (1792), i pregiudizi distrutti, in cui faceva appello perché fosse stabilita l’uguaglianza totale degli uomini e delle donne! Che filantropo!
Leggendo queste pagine non ho potuto fare a meno di entrare in empatia con il tribuno francese, costretto dagli eventi a constatare che il popolo che egli difendeva con sincera passione egualitaria, era stato fatto oggetto di un piano infernale di “populicidio”, un piano cinico, realizzato con due leggi due, con cui si dava mandato ai generali e ai soldati di sterminare i “briganti”, affidando al loro arbitrio stabilire chi fosse brigante: catturavano, giudicavano, eseguivano le atroci condanne a morte. Peccato che per loro ogni vandeano era un brigante, uomo, donna o bambino.
Se essere quello che si è per quello che si pensa viene trasformato in un reato, è chiaro che si può attaccare e distruggere qualunque categoria o gruppo etnico e sociale e la criminalizzazione di coloro che devono diventare oggetto di genocidio è sempre la prima tappa dei progetti di sterminio: lo fecero i romani con i primi cristiani, i nazisti con gli ebrei, i totalitarismi comunisti con i nemici presunti del popolo e così via (amarissima e cruenta via).
Uno dei sistemi più rapidi per dare la morte fu un’idea di Carrier: erano le “noyades”, gli annegamenti di massa. I prigionieri venivano denudati, legati a delle pietre, caricati sulle chiatte e fatti annegare.
Dopo aver letto tutto questo, ho fatto una gran fatica a spiegare come sempre la Rivoluzione francese, nonostante un professore connazionale di Robespierre, durante un corso d’aggiornamento che conduceva qui in Italia in una prestigiosa scuola internazionale (dove troppe immagini religiose – così ci disse – quasi gli impedivano di parlare!) abbia provato a confortarci su questo tema, affermando che il Terrore fu necessario per proteggere la Repubblica.
Ovviamente non riuscì a fugare i miei dubbi, anzi, mi fece chiaramente capire, nella sua agiofobia (paura delle immagini sacre), che i portatori di pensiero divergente, soprattutto cristiani, sono ancora in pericolo.
Il Terrore durò solo un anno, ma in poco tempo i morti furono tantissimi, alcune stime ritengono che il bilancio finale della Rivoluzione consistette in circa due milioni di vittime.
A fare queste affermazioni nel 1987 fu il professor Chaunu, professore di storia alla Sorbonne, presto accusato di essere di estrema destra dal suo principale avversario, Max Gallo, autore di una “Lettera aperta a Robespierre”, in cui esaltava la Rivoluzione in preparazione del bicentenario del 1989.
Sapeva Max Gallo, allora, che la fonte più importante sul genocidio vandeano con i suoi 600.000 morti e la distruzione del 40% delle risorse agricole era il proto-comunista Babeuf?
Se duecento anni dopo ancora era feroce il “negazionismo” su questa brutta pagina di storia, immaginate come doveva sentirsi il nostro amico rivoluzionario che assisteva direttamente all’aspra e sanguinaria menzogna con cui i fautori di liberté, égalité, fraternité, coprivano il loro progetto di spopolamento.
Il nostro povero idealista provò a crederci ancora e non riuscì a comprendere fino in fondo l’inganno, a vedere le ombre che le luci del suo secolo avevano gettato su tante vite innocenti e su tanti uomini trasformati in carnefici.
Delle sue speranze sull’esito della rivoluzione io conservo una piccola buona eredità che è l’essere cittadini nell’esercizio attivo di diritti e doveri, ma conservo nel cuore anche il dolore della disillusione che ho condiviso con lui, leggendo il suo dossier.
Babeuf perse la testa sotto la lama della ghigliottina rivoluzionaria e il suo ardente scritto è caduto in un relativo oblio: della Vandea non si può parlare, neanche se lo fa un comunista come Babeuf.
Eppure mi sarebbe piaciuto trovarlo nei libri di storia questo paradigma: i filosofi ridanno all’uomo la luce smarrita a causa dell’oscurantismo, reclamano per l’uomo il diritto alla libertà, alla felicità e all’uguaglianza e poi per essere felici affogano l’umanità in un bagno di sangue. Per cosa, infine? Perché un gruppo di filantropi ha deciso che hanno ragione gli “scienziati”, che la terra non basta per tutti e che quindi i meno uguali degli altri possono essere eliminati.
E’ il paradigma che ha insanguinato da allora in poi il mondo e sempre ad opera di chi vuole liberare i popoli da qualche grave minaccia, mentre la minaccia è proprio il presunto liberatore.
Historia magistra vitae, non perché gli antichi ne sapessero più di noi, ma perché hanno sbagliato prima.
Fonti
François-Noël Babeuf, Du système de dépopulation ou la vie et les crimes de Carrier: son procès, et celui du Comité révolutionnaire del Nantes”, consultabile in www.gallica.bnf.fr
Carmelo Domenico Leotta, Il genocidio nel diritto penale internazionale, G.GIAPPICHELLI EDITORE, Torino 2013
http://www.storiain.net/storia/babeuf-un-congiurato-comunista-nella-rivoluzione/
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