di Maria Consiglia Pompei

È frequente sentir ripetere espressioni del tipo  “come nel Medioevo” o “mica siamo nel Medioevo”, in senso dispregiativo, di fronte a fatti o a comportamenti che devono essere etichettati come retrogradi e oscurantisti.

Spesso si tratta di giudizi sommari e poco competenti della storia e dell’attualità, suscitati dalla non corrispondenza delle idee e delle azioni altrui alla mentalità dominante, una mentalità “illuminata”, contrapposta all’oscurantismo di antiquati bigotti.

Eppure fu proprio durante un’epoca che si fregiò della definizione di “secolo dei lumi”, il Settecento rivoluzionario, che fu “inventato” uno dei più oscuri sistemi di controllo della popolazione: lo spopolamento, il nazionicidio, il genocidio.

Confesso che, pur insegnando storia, pur essendo al corrente di quanto fosse stato sanguinario il leader più rappresentativo della Rivoluzione francese, “l’avvocato del popolo” Maximilien Robespierre, non ero a conoscenza di come la strage di francesi, rivoluzionari o nemici della rivoluzione, non importava, fosse stata pianificata, motivata e perseguita con “inaudita ferocia”, come afferma in un suo scritto del 1794, François-Noël Babeuf, detto Gracchus, per le proposte di riforma agraria che lo assimilavano all’omonimo tribuno della plebe dell’epoca romana.

Egli viene definito  “il primo comunista della storia” e, forse, a buon diritto, il primo vero “complottista”, sia perché scoprì e denunciò “les exécrations nationicides”, gli “orrori nazionicidi” del governo rivoluzionario, sia perché insieme a Filippo Buonarroti organizzò un complotto, la cosiddetta “congiura degli eguali”(1796), contro il Direttorio, l’ultimo governo  prima dell’avvento di Napoleone.

La congiura fallì, Babeuf fu catturato e condannato alla ghigliottina e Buonarroti, invece, divenne “l’occulto artefice d’una vasta organizzazione settaria (Adelfi, Sublimi, Maestri Perfetti, Mondo)” (sic in Enciclopedia Treccani – vedi fonti alla fine dell’articolo).

Insomma, i due, che si erano conosciuti in una delle varie circostanze in cui Babeuf era finito in prigione (incorreggibile, pestava sempre i piedi a qualcuno!), se ne intendevano di complotti!

Il povero Gracchus era un idealista, ma anche un uomo pratico: il suo “proto-comunismo” non era filosofico, utopistico, scientifico, ma concreto e si basava sulla sua esperienza con i catasti come agrimensore e geometra, uno dei mestieri che svolse nel periodo burrascoso della rivoluzione.

Egli poteva leggere nelle carte gli abusi della parte parassitaria della classe aristocratica e promuoveva l’abolizione dei diritti feudali, l’equa distribuzione delle risorse terriere e l’ottimizzazione della produzione agricola affinché tutti avessero il necessario e nessuno avesse in eccesso.

In buona sostanza non agitava lo spettro della cancellazione violenta e ideologica dell’aristocrazia, ma una nuova organizzazione economica e sociale, in cui la prosperità demografica sarebbe stata la prova di una sana gestione delle proprietà.

Per questo godeva dell’appoggio anche dei nobili liberali, che nelle prime fasi della rivoluzione avevano dato il loro contributo al cambiamento politico e alla caduta dell’assolutismo monarchico.

Babeuf – purtroppo non c’è spazio per soffermarsi sulla sua interessante vita – era “un cane sciolto”, non aveva padroni né sottostava sempre ai dogmi delle ideologie e amava visceralmente l’égalité, l’uguaglianza, tanto esaltata nel noto motto rivoluzionario, quanto poco rispettata da chi se ne riempiva la bocca: in nome di questo principio, il novello Gracco ebbe addirittura l’ardire di contestare la “Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino”, documento fondamentale della rivoluzione (1789), perché, distinguendo il peso politico dei cittadini in base al censo, provocava un nuovo tipo di discriminazione.

Il troppo rapido e colorito ritratto di questo personaggio (con il quale, sia chiaro, non sarei andata d’accordo per il suo radicale ateismo) è una premessa necessaria alla trattazione di quanto, grazie al suo coraggio, possiamo apprendere oggi sull’origine ideologica del grave crimine del genocidio, un’origine radicata nel pensiero-madre di gemelli diversi, diversissimi: da un lato le democrazie moderne (con tutti i loro difetti), dall’altro i totalitarismi che hanno insanguinato il Novecento e lo hanno fatto soprattutto con il genocidio.

E’ stato proprio cercando di risalire al primo utilizzo giuridico di questo termine che mi sono imbattuta nella pubblicazione di Carmelo Domenico Leotta, “Il genocidio nel diritto penale internazionale”, nella quale, alle pagine 72-76, il giurista spiega, appunto, che il primo a definire “la distruzione volontaria di un gruppo nazionale” con un termine simile a genocidio fu F.N. Babeuf.

La sorpresa è stata grande! Probabilmente sono semplicemente ignorante, ma in nessuno dei libri che ho consultato da studentessa e poi da insegnante avevo mai trovato questa informazione e, in effetti, a cercare bene, un indizio di incongruenza storiografica può essere il fatto che le fonti più consultate on line evitano di parlare di questo incredibile scritto di Babeuf, “Du système de depopulation ou la vie et les crimes de Carrier” o ne fanno cenno definendolo il prodotto di una fase di avversione del nostro alla politica di Robespierre.

 Leggendo il testo, consultabile on line nell’edizione originale, ciò che emerge è molto di più della semplice avversione per l’ideatore del Terrore, un’azione spietata che nella sola Parigi portò alla ghigliottina diciassettemila ipotetici nemici della Repubblica rivoluzionaria.

Il Leotta spiega che Babeuf fu incaricato da un deputato della Convenzione, l’organo che doveva occuparsi della transizione tra monarchia e repubblica e che ebbe il controllo della Francia dal 1792 al 1795, di indagare su quanto avvenuto in Vandea durante la prima delle quattro guerre che nel giro di pochi anni gli abitanti di questa regione a nord-est della Francia, monarchici e cattolici di ferro (che se lo dici troppo forte sei -scista), condussero contro le truppe dei sanculotti (i rivoluzionari), guidati da generali senza scrupoli a far strage di uomini, giovani, anziani, donne e bambini.

La vicenda storica è complessa e sarebbe difficile ripercorrerla integralmente. In questa sede ci basti sapere che i vandeani erano considerati una minoranza da cancellare con ogni sistema possibile e il povero Babeuf trovò prove documentali certe che lo sterminio fu attuato con una crudeltà rivoltante: “Cittadini repubblicani, non c’è più nessuna Vandea! E’ morta sotto la nostra sciabola libera, con le sue donne e i suoi bambini. L’abbiamo appena sepolta nelle paludi e nei boschi di Savenay. Secondo gli ordini che mi avete dato, ho schiacciato i bambini sotto gli zoccoli dei cavalli e massacrato le donne, così che almeno quelle non partoriranno più briganti. Non ho un solo prigioniero da rimproverarmi. Li ho sterminati tutti

Questo legge Gracchus nel rapporto del generale Westermann, “il macellaio della Vandea”, agli ordini di Carrier, procuratore del Tribunale d’Aurillac, autore del piano di sterminio che contemplò anche la sistematica distruzione di case e derrate alimentari con l’incendio di combustibili inviati da Parigi insieme alle truppe. L’ordine tassativo era “stermina i briganti fino all’ultimo, ecco il tuo dovere”, come si legge nel dispaccio inviato nel 1794 dal Comitato di salute pubblica (che a scriverlo oggi fa un po’ impressione…) al generale Turreau, comandante delle “colonnes infernales

Come poteva sentirsi il paladino della libertà e dell’uguaglianza leggendo di questi orrori? Il suo rapporto ebbe relativo successo: Carrier fu condannato a sette mesi di carcere e divenne il capro espiatorio perfetto per coprire ben altro.

Eh sì, c’era ben altro in quello che Babeuf aveva letto e scoperto ed era così tanto e così grave da doverlo scrivere in un libro-denuncia in cui ogni riga trasuda ancora oggi di amara presa di coscienza e di intensa e dolorosa indignazione.

Il nostro si era imbattuto nel violento pamphlet dell’avvocato Pierre Philippeaux, deputato alla Convenzione Nazionale, inviato in Vandea: il suo scritto denunciava qualcosa di ancora più grave – ammesso che si possa stabilire una graduatoria della brutalità genocidiaria – di quanto fatto contro i vandeani e quanto da lui affermato, vagliato alla luce dei documenti ai quali Babeuf aveva avuto accesso, aprì un’altra prospettiva, terribile, nella sua lucida e libera mente. (Segue…)

(continua)

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