di Gianluca Zappa

Vi sono momenti particolari della vita, come quello che stiamo vivendo, in cui c’è bisogno di Dante e del suo poema, perché questo grande poeta, questo grande cristiano, questo grande uomo, ci dice che la morte, il disordine, il male e la disperazione che da tutto questo deriva non sono l’ultima parola, ma che tutto di noi, del mondo e della storia è incamminato verso un grandioso destino di luce e di amore.

Ed è proprio questo che vorremmo sentirci dire, in certi momenti, con l’autorità di uno che sa come stanno le cose. Vorremmo sentirci sicuri, caldi e amati, come un bambino in braccio alla mamma.

Normalmente, invece, e in certi particolari momenti ancora di più, le cose vanno in modo diverso: si vive o meglio, si tira a campare senza una meta, con un senso di dispersione. Si disperde, la vita, in mille rivoli, in mille impegni; altre volte la vita è crudele e ci porta via le persone care; altre volte ancora le cose ci sfioriscono tra le mani, tanto più quanto le abbiamo desiderate intensamente. E allora si lavora nella noia, si passa il tempo nella noia, le nostre serate sono “stupide e vuote”, come cantava Gaber. Cosa manca? Apparentemente niente. In realtà manca il “nodo che tiene tutte le cose”, cioè tutto. Lo ha scritto Antoine de Saint-Exupéry, nella sua incompiuta Cittadella, ma la splendida immagine del nodo che tiene insieme tutto è già di Dante e sta proprio nella Divina Commedia, nell’ultimo canto.

Dante è ormai di fronte al mistero di Dio e cerca di immettere sempre di più il suo sguardo (in questo aiutato dalla Madonna) nell’alta luce che da sé è vera (Par XXXIII, 54). Finalmente, dopo averci più volte chiesto scusa perché non solo non riesce a ricordare bene quello che ha visto, ma anche perché non ha le parole per dirlo, balbetta qualcosa di Dio. Mentre ficca lo sguardo nella luce eterna… ma ascoltiamolo:

Nel suo profondo vidi che s’interna,

legato con amore in un volume,

ciò che per l’universo si squaderna:

sustanze e accidenti e lor costume

quasi conflati insieme, per tal modo

che ciò ch’i dico è un semplice lume.

(vv. 85-90)

Dante usa qui due termini fondamentali della filosofia aristotelica (sostanze e accidenti) per dirci che in Dio c’è tutto l’universo, tutto ciò che in esso esiste o è esistito, e tutto è come conflato, cioè fuso insieme, stretto insieme come nell’attimo che precedette il big bang. L’accenno indiretto ad Aristotele ci fa capire che questo precisamente è ciò che avrebbero voluto vedere le menti più eccelse, gli uomini più grandi della storia.

Ma ciò che qui colpisce di più è l’immagine del libro, del volume “legato con amore”, che dice che tutto, tutto, è amato da Dio. Anche la nostra noia, la nostra sofferenza, la nostra paura, la nostra miseria, tutto è abbracciato, tutto è amato, tutto si tiene e Dante lo vede, lo capisce in questa prodigiosa estasi: lì c’è anche il senso del suo esilio, del suo vagare come un mendicante di corte in corte, del suo salire e scendere le scale dei palazzi altrui, del suo mangiare il “pane altrui”, del suo subire gli strali della Fortuna. Tutto è lì, compreso, salvato.  Dio non ha mai lasciato sola la Sua creazione, ma ha continuato a stringerla a sé.

Viene in mente quella miniatura di santa Ildegarda di Bingen (sec. XII) in cui l’uomo è rappresentato grande e maestoso al centro dell’universo, e il cerchio dell’universo è abbracciato da Dio uno e trino, e lo Spirito Santo è un cerchio di fuoco. Viene da pensare alle Laudes Creaturarum di san Francesco, il cui messaggio gioioso è che tutto ciò che “per l’universo si squaderna” è stato fatto da Dio per noi. E, da grande figlio di questa tradizione cristiana e cattolica, Dante ci testimonia proprio questo, un secolo dopo san Francesco, due secoli dopo santa Ildegarda.

Santa Ildegarda di Bingen
“ Come la ruota racchiude entro di sé ciò che in essa è nascosto,
così la Sacra Divinità tutto racchiude in sé
senza limiti alcuno e tutto trascende”

Ma si diceva del nodo che tiene insieme tutte le cose:

La forma universal di questo nodo

credo ch’i vidi, perché più di largo,

dicendo questo, mi sento ch’i’ godo.

(vv. 91-93)

Tutto è annodato in Dio e Dante dice di aver visto questo nodo che lega insieme materiali, realtà, situazioni, eventi apparentemente dispersi. No, niente va perduto e solo a ripensarci il poeta ci confessa che prova una gioia immensa. L’espressione che usa è di una concretezza ineguagliabile, “più di largo sento ch’i’ godo”. Colpisce la forza di quell’avverbio e quel verbo, che indica un piacere intenso, non solo spirituale, ma anche carnalmente fisico.

Ma non finisce qui. Dante continua a scrutare dentro la luce eterna di Dio; la sua vista per una speciale grazia si “avvalora” sempre di più, tanto che riesce finalmente a mettere a fuoco quello che ha davanti. E vede:

Ne la profonda e chiara sussistenza

de l’alto lume parvemi tre giri

di tre colori e d’una contenenza;

e l’un da l’altro come iri da iri

parea reflesso, e ‘l terzo parea foco

che quinci e quindi igualmente si spiri.

(vv. 115-120)

La Trinità: tre cerchi, di tre colori e d’una stessa grandezza. Uno e trino. E il terzo cerchio (lo Spirito Santo) sembra un fuoco (come in Ildegarda) che spira dal Padre verso il Figlio e dal Figlio verso il Padre. Ci si può accontentare?  Per una religione orientale questa visione geometrica e in fondo astratta sarebbe sufficiente, ma Dante è un poeta cristiano e deve aggiungere qualcosa. Qualcosa di materiale, di carnale, perché la creazione è stata redenta tutta. Ecco allora che il secondo cerchio, la “seconda circulazion” (quella del Figlio, che lui non si stanca di ammirare)

mi parve pinta de la nostra effige:

per che ‘l mio viso in lei tutto era messo.

(vv. 131-132)

La Trinità Divina
(A. Nattini)

Questo è davvero il più grande mistero! L’uomo stesso è stato assunto dentro Dio, nel suo interno più profondo. Come è possibile? – si chiede Dante. “Come vi s’indova”? Indovarsi: è costretto ad inventarsi un verbo che non esiste per esprimere questa realtà incredibile. Ma comunque il messaggio è chiaro: nonostante tutti i nostri limiti, Dio ci ama tanto da prenderci dentro di sé, nella sua misteriosa e gioiosa intimità. Fino all’ultimo atomo, fino all’ultima molecola. Dante cerca di comunicare, fino ai limiti estremi del comunicabile, l’inconcepibile mistero dell’incarnazione. Inconcepibile perché la mente umana non ha penne tali da volare tanto in alto; tuttavia questo “assurdo” è proprio ciò che in certi momenti della vita, come quello che stiamo vivendo, vorremmo sentirci dire. Per questo c’è bisogno di Dante. Per questo, anche o soprattutto per questo vale la pena leggere e custodire il suo poema.

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