di Guido Verna
2011
4. La “nascita” del Bambino
Il culto dell’infanzia di Gesù — sempre, comunque, all’interno della Natività, cioè della contemplazione del mistero della Incarnazione — risale ai secoli XII e XIII, quando potè contare su promotori quali san Bernardo di Clairvaux [1090-1153], san Francesco di Assisi [1182-1226] e sant´Antonio da Padova [1195-1231] [8].
Invece, la rappresentazione di Gesù Bambino da solo, in piedi e “grandicello” — senza i genitori e senza l’impianto scenico della Natività — comincia ad affermarsi nel XIV secolo. Se le rappresentazioni più antiche sono in Germania, la diffusione massima si ha però nella Spagna del “siglo de oro” (XVI-XVII secolo).

Proprio in Spagna, in un tempo ancora lontano da quello dell’oro, ma in cui era già in corso la sua lunga, lunghissima “trasmutazione” — la Reconquista durò più di sette secoli e mezzo, dalla battaglia di Covadonga nel 722 alla presa di Granada nel 1492 — alimentata, nel mondo cattolico, da quel particolare e sperimentato procedimento alchemico che si chiama martirio e che “trasmuta” il sangue in oro sociale; proprio in Spagna, dicevo, comincia la storia del Bambino di Praga.
É un inizio che farà storcere il naso ai “puristi” della storia, contenendo molti elementi che — soprattutto oggi — vengono comunemente rubricati come “leggende”, magari con un sorriso di compatimento o, più probabilmente, di disprezzo. Siccome, però, i fatti in questione non riguardano la “notte dei tempi”, ma stagioni più vicine a noi e più “smaliziate”, sono convinto ─ me lo posso permettere impunemente, non essendo uno storico di professione ─ che gli elementi leggendari non sono costruiti “ad arte” per ingannare i presenti ─ e magari, con furbizia luciferina, per ingannare anche gli uomini del futuro ─, bensì immessi nel racconto per tradurre più immediatamente a beneficio dei contemporanei il senso autentico dell’accaduto.
Mi conforta, in questa ottica, quanto scrive Plinio Correa de Oliveira nella sua citata meditazione: posto che «la leggenda è più importante della storia [e che] la storia delle leggende è più importante della storia degli uomini […] [,] può darsi che il re Sebastiano non abbia compiuto alcune delle gesta che sono alla base della sua leggenda. Ma questa non è la cosa più importante. La cosa più importante è che nella storia sia potuta sorgere una tale leggenda» [9].
Nella nostra prospettiva, è altrettanto importante, forse anche di più, la storia che, al contrario, è sorta dalla leggenda.
La leggenda e la storia sono queste.
Nella plurisecolare guerra tra cristiani e islamici nella penisola iberica, durante un attacco dei mori databile, all’incirca,nel XIII secolo (considerato che la riconquista della città avvenne nel 1248) fu completamente distrutto un antico convento carmelitano nei pressi di Siviglia. Tutti i monaci furono uccisi, se ne salvarono solo quattro.

Dopo qualche anno, essi tornarono al convento, con l’intenzione di ricostruirlo e farlo rifiorire. Si trattava di un’operazione sproporzionata alle loro forze e, quindi, con un lento e faticoso avanzamento dei lavori.
Un giorno d’estate, a uno dei frati che stava lavorando, apparve un bambino, che lo invitò a pregare. Il frate ubbidì e cominciò a recitare l’Ave Maria. Ma quando pronunciò le parole «sia benedetto il frutto del seno tuo, Gesù», il Bambino gli sorrise e si fece riconoscere: «Sono io, Gesù». Poi, andò via, lasciandosi alle spalle un vento caldo e il rimpianto del frate di non essere riuscito a imprimersi perfettamente nella mente i suoi lineamenti.
Gli anni passarono, il convento tornò di nuovo a fiorire e si riempì ancora di monaci. Ma, lui, il vecchio monaco ricostruttore, rimaneva con “quel” desiderio: cercare di ricordare “quel” volto per poterlo imprimere nella cera e lasciarlo in eredità. Ma più ci provava, più non ci riusciva. Finché, un giorno il Bambino tornò, e sorridente gli disse: «sono qui, perché tu possa finire la tua statuetta». Le mani del vecchio monaco si sciolsero d’incanto e attraverso i loro movimenti ora finalmente sapienti, la cera diventò il volto di “quel” Bambino.
La mattina dopo, i confratelli, entrando nella sua cella, trovarono il vecchio monaco, con il volto illuminato dal sorriso, immobile vicino alla piccola statua del Bambino. Il suo Nunc dimittis era stato accolto e — se mi si passa l’immagine un po’ sentimentale — preso per mano dal Bambino era salito in Paradiso.
Ancora en passant, si può fissare questa considerazione: il Bambino compare a un uomo che sta lavorando, ma non genericamente, bensì occupato all’interno di un progetto e di una attività specifici: la ri-costruzione del suo habitat — non solo la casa, ma anche la chiesa, il giardino, la biblioteca forse — distrutto dal nemico apparentemente vincitore.
5. Il Bambino in Boemia: finalmente il “Bambino di Praga”
Da casa Lobkowicz a Santa Maria della Vittoria
Passarono gli anni, finché alla metà del XVI secolo una nobildonna spagnola — doña Isabela Maria Maximiliana Manrique de Lara y Mendoza — «[…] figlia di una delle più potenti famiglie d’Aragona e Castiglia, era andata in sposa a Vratislav di Pernštejn, di nobile casato ceco» [10] e aveva ricevuto come dono di nozze proprio “quella” statuetta, forse per aiutarla a vincere la nostalgia della sua Spagna. La estatuilla le fece a lungo compagnia nella nuova dimora boema, dove la custodì con amore per oltre 30 anni.

Poi, nel 1587, la sua bellissima figlia Polixena sposò un nobile boemo — Vilém di Rožmberk — e doña Isabella le trasferì, con amore di mamma, il suo dono di nozze più prezioso, che l’avrebbe accompagnata e sostenuta per tutta la sua vita, non priva peraltro di passaggi dolorosi. Vilém infatti morì prematuramente e Polixena contrasse un secondo matrimonio con il Cancelliere supremo della corte di Boemia, Zdeněk Vojtěch di Lobkowicz. Diventò Polixena di Lobkowicz, quasi a rappresentare anche col suo nome la ormai doppia “nazionalità” del Bambino, ispanica e boema. Tutto questo accadeva solo 9 anni dopo la battaglia di Alcácer Quebir del 1578: il Bambino, già da tempo insediatosi, con provvidenziale tempestività, nella nuova zona operativa, cominciava ora a prepararsi al “ruolo” pubblico .

Dopo venticinque anni di matrimonio, anche il secondo marito di Polixena morì, finché, nel 1628, — forse per un voto fatto per la nascita del suo unico figlio, concepito in età non più giovanile e dal marito gravemente malato — Polixena, dopo un quarantennio di devozione “esclusiva”, decise di far “rientrare nel mondo” il Bambino: «Già da bambina, […] soleva inginocchiarsi ai suoi piedi. […] E ora, che era arrivata al volgere della sua vita e stava per ritirarsi dai clamori del mondo, gli si inginocchiò davanti per l’ultima volta nella cappella di famiglia del suo palazzo di Hradčany» [11].

Poi, vestito da re, lo portò nella sua nuova “casa”, che aveva un nome straordinariamente evocativo — Santa Maria della Vittoria —, affidandola al Priore dei Padri Carmelitani Scalzi che allora, come oggi, occupavano il convento nel quartiere di Malá Strana di Praga. Quando gli consegnò quella preziosa statuetta, alta solo 47 centimetri, accompagnandola con parole “pesanti” — «Vi porto in dono la cosa più preziosa che ho, venerate questa statuetta e conoscerete il bene» —, Padre Ludvík, per il rilievo sociale della donatrice e soprattutto perché figlio di S.Teresa, certamente la apprezzò moltissimo ma non poteva minimamente cogliere la portata di “quel” dono.
(continua)
Guido Verna
2011
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[8] Cfr. Cesario van Hulst [, O.F.M.], voce Bambino Gesù (Culto del), in Enciclopedia Cattolica, Ente per l’Enciclopedia e il Libro Cattolico, 12 voll., Città del Vaticano 1949, vol. II, p. 771.
[9] P. Corrêa de Oliveira, op.cit.
[10] M.Santini, op.cit., p.16
[11] Ibid., p.17
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