di Gianluca Zappa
Un viaggio dentro la Divina Commedia: è questo che voglio cominciare con voi, alla ricerca di quanto Dante dice e insegna ancora oggi a distanza di sette secoli. Questa rubrica sarà anche un’occasione per scoprire segreti e perle nascosti nel suo grande poema, un’opera immensa che sorprende ogni volta di più chi la legge e la ama, ma che, a dispetto della sua fama mondiale, rischia poi di essere poco conosciuta dal grande pubblico dei lettori.

appartenuto a Galileo Galilei,
Di Fivedit – Opera propria, CC BY-SA 4.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=41988488
Mi piace paragonare la Divina Commedia ad una cattedrale. Non è un paragone originale, certo, ma resta il più appropriato: Dante ha costruito il suo poema con migliaia di pietre che sono le parole, organizzate in versi endecasillabi, e questi raggruppati in terzine (tre versi, come tre sono le persone della Trinità), che vanno a formare cento canti (il cento è il numero che rappresenta l’unità la perfezione). In questa cattedrale tutto si tiene, tutto si risponde, tutto è simbolico e parla, come in ogni cattedrale medievale. Può accadere di trovare, per esempio, tre parole in rima in un canto dell’Inferno (magari il quinto, quello famosissimo di Paolo e Francesca) e di incontrarle di nuovo sessanta canti dopo, nel trentunesimo del Purgatorio. Capire il perché queste due “pietre” si rispondono così è un’avventura affascinante. Ne parleremo se avrete la pazienza e la costanza di leggere.
Il primo dovere che abbiamo quando ci avviciniamo al poema di Dante è quello di chiederci perché c’è, da quale esigenza è stato generato. Cosa ha spinto un poeta ed intellettuale esiliato, che tra l’altro aveva posto mano ad almeno un paio di opere molto impegnative, ad abbandonare ogni altro progetto e a buttarsi anima e corpo nella costruzione della Commedia? Ora, ogni cattedrale ha una sua storia, una sua origine. E’ giusto e preliminare chiederci dunque perché mai Dante abbia edificato questa sua cattedrale di parole e provare a rispondere con quello che lui stesso ci ha detto. Ci sono state certamente delle concause, ma io penso che possiamo enucleare tre motivi fondamentali.
All’inizio di tutto, inutile negarlo, c’è Beatrice, quella “donna benedetta”, come l’aveva definita nella Vita Nuova, di cui il poeta doveva tessere le lodi; una donna reale che ha incontrato, che ha amato, e dalla quale ha ricevuto il dono della conversione. Perché in effetti, in modo del tutto gratuito e inaspettato, l’esperienza dell’amore per Beatrice è stata per Dante una sorta di epifania miracolosa (e infatti le attribuì il nove, il numero della Trinità moltiplicata per se stessa, il numero del miracolo). Al termine del suo libello giovanile egli aveva fatto la promessa di “dicer di lei quello che mai non fue detto d’alcuna”. La promessa fu mantenuta molti anni dopo. Senza Beatrice non ci sarebbe stata mai la Commedia. Potremmo insomma dire che la cattedrale di Dante è dedicata a “santa Beatrice”, la quale ha operato il miracolo nella sua vita.

( Henry Holiday, Regno Unito 1839-1927)
C’è poi un secondo motivo. Proprio al termine della Vita Nuova, prima di fare la sua solenne promessa, Dante dichiara di aver ricevuto una “mirabile visione”. Ora, io credo che Dante abbia realmente “veduto” l’aldilà e il destino delle anime per un dono soprannaturale. Ma anche quando non volessimo spingerci a tanto, potremmo intendere la parola “visione” in senso lato: ogni artista in effetti “vede” la sua opera prima di crearla. Chi fa quest’esperienza lo sa: l’opera nasce misteriosamente e chiede di essere realizzata. Da quel momento in poi è tutto un fervore per darle vita.
La Commedia è in effetti definita una visione nel momento solenne dell’incontro con Cacciaguida, quando Dante si pone il problema se scrivere e diffondere o meno quanto ha visto e mette in bocca al suo avo lontano il terzo motivo di cui voglio parlare:
Ma nondimen, rimossa ogne menzogna,
tutta tua vision fa manifesta;
e lascia pur grattar ov’è la rogna.
Chè se la voce tua sarà molesta
nel primo gusto, vital nodrimento
lascerà poi, quando sarà digesta.
(Par. XVII, 127-132)

(Gustave Dore, Francia 1832-1883)
Da questi versi capiamo che quello che Dante ha visto è per il mondo e per la storia, non può tenerlo per sé, costi quel che costi. Da questo viaggio, da questo cammino faticoso, doloroso, ma anche esaltante, insomma, da questa esperienza di vita scaturisce un giudizio su tutto quello che si manifesta nel mondo e nella storia. E questo giudizio va detto, va espresso, perché farà bene agli uomini, anche se in un primo momento potrà risultare indigesto. Dante ha capito che il mondo funziona male e che bisogna fare qualcosa: il poema sarà questo qualcosa che egli offrirà all’umanità intera, secondo l’invito che gli è stato già rivolto dalla stessa Beatrice sulla sommità del monte del Purgatorio:
Però, in pro del mondo che mal vive,
al carro tieni or gli occhi, e quel che vedi,
ritornato di là, fa’ che tu scrive.
(Purg. XXXII, 103-105)

(Carl Wilhelm Friederich Oesterly , Germania 1805-1891)
“In pro del mondo che mal vive”, ecco il fine del poema: fare del bene agli uomini, a tutti gli uomini, che vivono male. Ai suoi contemporanei, certo, ma anche a noi, ai suoi posteri. Dante, sempre guidato nel suo cammino attraverso i tre regni dell’aldilà, si offre come nostra guida. E noi lo seguiremo, perché siamo certi che, con lui, anche noi impareremo a camminare un po’ meglio su questa terra.
segue
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