di Guido Verna

Come all’andata sulla via del Port de Cize, anche qui la frontiera la passiamo quasi senza accorgercene, se non fosse per il breve rallentamento in una strettoia della corsia autostradale e per due bandiere che non hanno nemmeno voglia di sventolare: il continuum della terra basca tra Francia e Spagna anticipa i primi vantaggi della nuova Europa che avanza.

Sarà perché all’andata avevo voglia di cominciare il Camino mentre ora, invece, non ho voglia di abbandonarlo; sarà perché all’andata avevo l’entusiasmo verso Santiago, mentre ora ne avverto la nostalgia; sarà pure per tutto ciò ma questa nuova Europa che avanza, al di là dei suoi primi vantaggi, comincia anche a darmi qualche pensiero sfuggente, che provo ad inseguire ed a fissare in questi primi chilometri in terra di Francia.

Anche lo spazio ha bisogno di una sua liturgia, come il tempo. Un tempo sempre uguale a sé stesso, senza domeniche e Natali, senza compleanni e Pasque, senza anniversari e Capodanni, è un tempo da Gulag o da clinica psichiatrica, per uomini in prigione o per uomini senza mente. Ma anche uno spazio senza frontiere – che è stato lo spazio dell’Europa prima della Rivoluzione Francese e che quindi dovrei apprezzare particolarmente – oggi, per quello che gli è soggiacente,comincia a farmi sentire prigioniero; immemore o pazzo, se Dio vuole, ancora no. Come, non c’è più il passaporto, non c’è più il finanziere che ti controlla e ti fa aprire i bagagli, abbiamo ricostituito una condizione che apprezzavi, e ti lamenti? Tutto vero, senz’altro, ma insieme comincio ad avvertire – giorno dopo giorno, come una mano che piano piano, delicatamente, ti chiude la bocca e ti serra infine il respiro – una sensazione sgradevole: quella di una libertà talmente grande che quella mia, piccola piccola, evapora. Ho la sensazione che vogliano farmi prigioniero – approfittando dell’Europa e lentamente ma inesorabilmente – della più grande prospettiva ugualitarista, omogeneizzante, di questo enorme frullato di identità storiche, di costumi, di popoli, che si cerca prima di sminuzzare e poi di ridurre in poltiglia, verso l’uomo nuovo [1], cittadino del mondo, che parla inglese e sa navigare, che adora la rapidità di Mac Donald e la casualità di Benetton, che non deve essere solo uguale fuori ma – soprattutto – deve essere uguale dentro.

Eppure in Europa c’è già stato un tempo senza frontiere e soprattutto c’è già stato un europeo, un uomo uguale dentro – anche se diversissimo fuori. Ma allora, perché mi lamento se c’è qualcuno che prova ancora a fare uguali gli uomini? Mi lamento non solo e non tanto perché non mi piace minimamente l’essere uguali anche fuori – e sarebbe già un più che sufficiente motivo di lamentazione e di risentimento –, ma soprattutto perché è l’uguale dentro cui oggi si tende che mi fa venire i brividi. Si può – perché è già accaduto – essere tutti uguali dentro, ma uguali rispetto a quale modello? Uguali a chi?

L’Europa nel 1350

L’uomo medievale mirava a perfezionare la sua natura con la fede, quello di oggi è costretto a sottoporla incessantemente alla violenza dell’empietà. Sono due europei terribilmente diversi, uno, quello di ieri, teso verso Dio, l’altro, quello di oggi, spinto a farne sempre di più a meno. E se l’esito dell’essere spinto fosse l’esserne anche convinto, come sarà l’europeo di domani?

Mentre la Spagna è, ormai, definitivamente alle nostre spalle e si allontana col passare dei segnali chilometrici, mi sento all’improvviso povero:

«La civiltà romano-germanica, la nostra società storica, è stata ridotta in dolorosa povertà, da ricca che era di relazioni con la verità naturale e con quella rivelata, cioè con il deposito della Chiesa cattolica. L’autunno e l’inverno il più rigido sono subentrati all’estate, e l’attenzione si è necessariamente spostata dai fiori e dai frutti alle radici. Ma la condizione di ogni fioritura e fruttificazione è la conservazione e la cura delle radici, per certo dal punto di vista estetico, cioè della sensibilità, di quanto si vede, non particolarmente attraenti, ma essenziali: del resto, alle radici è affidato veicolare la vita, non in modo esplicito la bellezza. Ma ancora tanto più l’estate è stata piena, tanto più è indimenticabile, né si sottrae a questa legge quella stagione sui generis che è “l’estate di S.Martino”, il cui venir meno è ancora più struggente; tanto più l’uomo è stato ricco, tanto più gli riesce dolorosa la povertà. E tanto più ci si deve piegare su di lui con cura affinché la perduta ricchezza non si accompagni alla disperazione. […] Chi, di fronte alle difficoltà di intendere la sopravvenuta povertà, si è curato di questi poveri? Penso soprattutto ai miei fratelli di fede iberici e iberoamericani, che più di ogni altro hanno conosciuto, grazie all’onda lunga della Contro-Riforma cattolica, il permanere non solo teorico, ma fattuale, e non solo artistico, ma talora anche politico di questa ricchezza: non solamente la dottrina della ricchezza, ma anche la ricchezza concreta, storica» [2]. 

So bene che la cura e la conservazione delle radici è ciò che ci siamo scelti, perché consapevoli che esse sono «la condizione di ogni fioritura e fruttificazione». So bene che nei nostri orti botanici ci sono pochi fiori proprio perché «alle radici è affidato veicolare la vita [e] non in modo esplicito la bellezza».

So tutto ma per un po’ mi prende nostalgia almeno delle frontiere naturali, delle montagne e dei valichi, che ti obbligano – elementi di liturgia geografica, guardie di confine di pietra che il Creatore ha posto a guardia delle identità – a far mente locale e a capire le differenze dello spazio. Mi prende nostalgia del Port de Cize e dei Pirenei, perché essi «non dividono soltanto geograficamente la penisola iberica dal resto dell’Europa, ma un tipo di civiltà, uno stile di vita e una concezione dell’esistenza, quelli della modernità europea, da un mondo in cui persistono tematiche umane di stampo cristiano e medievale, vestigia profonde e tenaci della Cristianità» [3].

Port de Cize

Santiago e la Spagna hanno rafforzato dentro di me quelle vestigia che, pur con tutti i miei limiti e le tentazioni e le corrosioni del tempo moderno, tento faticosamente di portarmi appresso, da tanti anni, ben conservate per consegnarle a qualcuno, anzitutto ai miei figli.

Ora la nostalgia dei Pirenei e del mondo iberico che ormai sono lontani, si fa più acuta: «[…] sinteticamente ed emblematicamente, non vi è soltanto un mondo umano geograficamente sotto i Pirenei, ma vi è un mondo umano idealmente sotto i Pirenei, e di esso fanno parte tutti coloro che, pur non essendo spagnoli, portoghesi o iberoamericani, in qualche modo conservano qualche vestigio della Cristianità o almeno la nostalgia di essa. […] L’ho già confessato: partecipo — per usare nuovamente l’immagine di Francisco Elías de Tejada y Spínola — della Cristianità come alternativa all’Europa, a quell’Europa che vuole dimenticare di essere stata Cristianità; sono uno dei nuovi poveri, diseredati non solo di una condizione storica, ma anche defraudati della dottrina per riconquistarla» [4].

Passo di Roncisvalle

Lo confesso anch’io: anch’io “partecipo” e mi sento un povero e un diseredato. Ma ho ancora tanta voglia di passare e ripassare i Pirenei, ovunque essi siano, per recuperare un pezzo alla volta quello che mi è stato rubato – la mia eredità culturale e spirituale – e per sentirmi sempre più meno povero.

Guido Verna

1996

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[1] Sotto le macerie del muro è rimasto il terribile sogno di un uomo nuovo, quello comunista, non dell’uomo nuovo. Altri muri, purtroppo, ho l’impressione che ci attendano. E per il quando e il come di altri crolli — fatti salvi gli interventi dall’alto — dipenderà ancora solo da noi …

[2] G.Cantoni, in Nota a proposito della libertà religiosa, in op.cit.,pp.51-52.

[3] Ibid., p.52–53

[4] Ibid., p.53–54

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