di Guido Verna

L’oceano, in questo assolato primo pomeriggio, ha deciso di riposarsi, le onde sono miti, quasi svogliate e fanno venire in mente più il luogo comune moderno dell’idromassaggio che la proverbialità classica della sua furia.

A guardarlo da quassù, mi prende una dolcezza strana, della quale – approfittando anche del traffico poco impegnativo – cerco di individuare l’origine. Scarto subito l’ipotesi che possa essere figlia della mia pigrizia piccolo borghese, perché, tutto sommato, obiettivamente non è fra i miei difetti maggiori. Dipenderà, allora, dalla mia preferenza per i paesaggi rasserenanti piuttosto che per quelli che evocano situazioni no-limits e che tanto piacciono ai viaggiatori di oggi? No, scarto anche questa ipotesi, che al più è una concausa. Certo, quel cartello al bivio mi ha ben predisposto, ma lo avverto come un’altra concausa. Ci deve essere qualcos’altro. Finalmente, capisco: questa dolcezza strana è figlia di tutto il panorama nel quale sono dentro.

È figlia di questo contrasto inconsueto della Sierra che incombe alla nostra destra e che protegge Covadonga e il suo senso, rendendolo disponibile solo a chi vuole conquistarselo, a chi lo capisce e lo ama e decide di salire per attingerlo e ancora utilizzarlo; e che invece, a sinistra, dall’altra parte della strada, si sfinisce prima in colle e poi, via via giù, in prato e infine diventa spiaggia verde, umida e brillante.

È figlia di questo mare immenso che tenta continuamente di diventare fiume, che entra profondo nella serie di Rias che in successione incontriamo ma che ogni volta, esausto, perde anche quel poco di dinamismo che ha stamattina, senza acquistare nemmeno un po’ la “fluenza” del fiume. Povero Oceano, vorrebbe entrare nella terra e risalire per andare a conoscere la Sierra e per farsi benedire dalla Virgen di Covadonga, ma non sa che solo ai cuori degli uomini – a quelli che però lo vogliono – è permesso di vincere la gravità e risalire la china: all’Oceano no, al massimo può diventare un lago e stagnare.

In compenso il creato – cioè il Creatore – ha sempre un rovescio di medaglia che bisogna saper cogliere. Il cuore di un uomo è libero e se vuole può risalire; ma se resta stagnante si riempirà di insetti sgradevoli e sarà destinato a impaludarsi e marcire. L’Oceano, al contrario, è definitivamente determinato: non può e non potrà mai risalire; non può e non potrà mai arrivare a Covadonga; ma l’esito in cui è destinato a risolversi il suo generoso tentativo – lo stagno – potrà, in compenso, non diventare una palude e riempirsi invece di ottime ostriche, come quelle che mangiamo nel piccolo bar ristorante di legno, ai bordi della Ria silenziosa e poco frequentata che abbiamo scelto per riposarci un po’.

San Vincente de la Barquera, più avanti, è pieno di gente. L’oceano ha cominciato a muoversi e i bagnanti appoggiati con le loro schiene sulla ruvidezza degli scogli – neri e più puntuti che sinuosi – fanno doppiamente tenerezza, perché il sole che dall’altra parte cercano di conquistarsi è ormai pallido e ininfluente. Ma come sarà stupido e crudele questo mondo moderno che richiede tanti sacrifici…

Cerchiamo di trovare una camera per le notte, ma appare subito evidente la vanità della cerca. E poiché tutti ci dicono che verso Santillana del Mar sarebbe stato ancora peggio, decidiamo di tornare qualche chilometro indietro, verso Vidiago – in una zona molto bella e che avevamo attraversato forse troppo velocemente, un altopiano pieno di verde, di grandi alberi e di tranquillità – per puntare verso un albergo che il cartello indicatore faceva rassomigliare a una sorta di castelletto. Attraversiamo una ferrovia senza passaggio a livello custodito e risaliamo una stradina tra le case del paese. In cima, l’albergo conferma de visu la veridicità del cartello ma anche la sua eccessiva evidenza: perché l’albergo è sì bello e pieno di fascino ma è anche, purtroppo, tutto esaurito. Torniamo indietro con delusione e rammarico raddoppiati, per la presenza – proprio di fronte all’albergo – di uno splendido cortile di una casa contadina seicentesca in cui c’è la più antica sidreria del paese.

Ma in fondo alla stradina, quando con estrema prudenza ci fermiamo prima di riattraversare la ferrovia, ci rendiamo conto che l’assistenza di Santiago ai pellegrini vale sia all’andata che al ritorno e sia sulla via francigena che su quella cantabrica. Questa volta Santiago si è travestito da contadino, ha la faccia scavata e la mani ruvide, ma ha conservato lo sguardo dolce e gli occhi luminosi che incrocio guardando a sinistra per assicurarmi che il treno non abbia il mio stesso orario. Sono gli occhi di Paco, che mi guarda fisso e comincia a dirmi qualcosa. È un tentativo di comunicazione che apprezzo molto, ma più nelle intenzioni che nella sostanza, giacché – io che ho già qualche difficoltà con lo spagnolo – mi accorgo di essere totalmente sordo all’asturiano. Ma poiché gli occhi di Paco sono mobili e con una luce sempre più affettuosa, capisco – o spero di capire? – che mi chiede se cerchiamo casa. Mi affido, da italiano, al vocabolario internazionale dei gesti: so muovere bene le mani, appoggiarci sopra il capo leggermente reclinato, puntare l’indice sull’orologio al polso. Tento, perciò, la risposta non verbale: sì, Paco, cerchiamo casa per dormire e sono già le otto di sera ed è da stamane che viaggiamo…  ma, per piacere, Paco, non continuare a spiegarmi in asturiano come fare per cercarla, usa anche tu il mio vocabolario, hai occhi grandi e mani nodose… Anzi, per piacere ancora maggiore, sali sulla nostra macchina ed accompagnaci. Paco acconsente a metà, perché generosamente ci accompagna ma lo fa a bordo della sua Ape anni cinquanta, che seguiamo con una certa divertita emozione. Saliamo, dall’altra parte della strada principale, su una viuzza sterrata su cui si affacciano case bianche e modeste. Finiamo in un cortile di una casa più grande e signorile e Paco, avendo esaurito il suo compito, senza dirci nulla e senza nemmeno darci il tempo di ringraziarlo, ci lascia. Suoniamo il clacson e da una finestra si affaccia una signora, che gentilmente riesce a farci capire che non è lei che affitta le camere, ma è la sua vicina, la quale, purtroppo, oggi è ad Oviedo a trovare la figliola…

Facciamo inversione ancora divertiti ma anche un po’ delusi. Ripassando tra il gruppo di case modeste, vediamo improvvisamente l’Ape di Paco parcheggiata in un angolo. E intorno ci sono tanti bambini che giocano e una signora grassottella che con poca voglia sta mangiando qualcosa. Ma allora non siamo ancora soli: questa è la casa di Paco e questi sono i figli e questa è la moglie! Rallentiamo fino a fermarci e la signora capisce al volo. Paco, Paco… E Paco esce dalla sua casa, parlotta un po’ con la moglie e poi, via, ancora sull’Ape e noi dietro, senza dirsi nulla. Superiamo la strada principale ed entriamo in una zona di ville, con alberi alti e parchi dietro i muri, di una bellezza antica che bisogna saper leggere attraverso le screpolature della facciate e la ruggine dei cancelli. Finalmente, siamo nella villetta dove si affittano camere, ormai certi che Santiago a pellegrini pazienti e allegri come noi non farà mancare il ricovero.

Nel piccolo e ben curato giardino davanti la casa, gli altri ospiti che stanno chiacchierando in attesa della cena, ci salutano con garbo ma è evidente la loro sorpresa e la loro curiosità alla vista di questo inconsueto piccolo corteo dietro un’Ape. Paco – il capo corteo – parla per noi e dal tranquillizzante sorriso della squisita padrona di casa capiamo subito che non dormiremo sotto le stelle. Grazie, Paco. Anche se ti ritrai con estrema dignità, accetta queste pesetas, forse inadeguate e inopportune ma che, in assenza di comunicazione verbale, sono l’unico modo per esprimere comprensibilmente la nostra gratitudine. Accettale almeno per la benzina e per un gelato ai tuoi tanti bambini che, prima di andare a letto, stanno aspettando il rombo della marmitta forata della tua Ape, che ora, mentre vai via salutandoci a mano aperta, si sta spegnendo tra le foglie degli alberi del viale.

Quando, dopo aver preso possesso delle camere, torno fuori in giardino, il salottino verde degli altri ospiti mi accoglie con naturalezza e – almeno così mi sembra di capire – anche con un certo qual piacere, se non altro per poter soddisfare qualche piccola curiosità generata dall’inusitato corteo.

Le nostre coordinate geografiche – una cittadina vicino Roma… – e il nostro pellegrinaggio fanno scivolare, soprattutto da parte di un interlocutore, il discorso sul mondo cattolico. Mi fanno continuamente domande del tipo: a Roma cosa pensano di… Ho la conferma di quanto avevo percepito altre volte all’estero e che, in fondo, è assolutamente ovvio, tranne che per molti italiani: Roma viene sentita come il centro di questo mondo. Purtroppo non mi sento lusingato a fare il portavoce, anzi spesso ho un grande imbarazzo. È difficile spiegare e spiegarsi, soprattutto quando si lambisce il versante politico; è difficile – anzi, è impossibile – decodificare ad un buon cattolico spagnolo i compromessi, le convergenze parallele, i collateralismi, Rutelli, l’Ulivo, i Popolari…

é l’ora – ma è un’ora spagnola, oltre le dieci di sera – della cena. La sidreria è piena ma il grande tavolo nel cortile seicentesco sembra aspettare solo noi. L’apertura della bottiglia di sidro ha un suo rituale, che però non riusciamo a percepire compiutamente soprattutto per quella tinozza di legno scuro che l’accompagna e che rimane tra i nostri piedi e che vediamo vicino ad ogni tavolo. Il cameriere porta la bottiglia molto in alto e da qui fa precipitare il sidro nel bicchiere, dove però ce ne finisce pochino, mentre il resto si perde nella tinozza.

Quando torniamo a casa, è ormai l’una e il giardino è buio ma non silenzioso. Sotto l’albero, il salottino è ancora ciarliero anche se con l’ovatta e, chissà perché, ho la sensazione che mi stiano aspettando. I miei pellegrini vanno tutti a letto, io decido – ma posso fare altro, con questa sensazione? – di prendere posto nella sedia vuota del salotto. Parliamo ancora a lungo ed è un parlare pieno, denso, ma anche allegro e amichevole. Sì, mi stavano proprio aspettando… Ne ho conferma verso le due, quando rientra un gruppo di giovani studenti universitari, tra cui il figlio di una coppia catalana che faceva parte del salotto e che dice di essere un cattolico tradizionalista – ovviamente dovrebbe dirsi simpliciter: un cattolico; la necessità della specificazione è la misura della tragedia culturale che incombe sul nostro mondo; come avrebbe potuto distinguersi da un progressista e da un democristiano? Dalla sua apertura e dalla sua cordialità, ho l’impressione che gli abbiano già raccontato dei discorsi fatti prima di cena. Sono contento, ma credo che anche lui, in fondo, sia molto felice del fatto che in Italia, se non proprio a Roma ma nei pressi, appena al di là della periferia, possa trovare sintonie.

Va a prendere la bottiglia di sidro, che aveva riposta per gli amici, per fare il brindisi prima di andare a letto. C’è un solo bicchiere e, finalmente, capisco questo secondo rituale “asturiano”. Si beve tutti da quel solo bicchiere, che però non va scolato fino in fondo: deve rimanere un goccio di sidro, per farlo scivolare dove si sono appoggiate le labbra, buttandolo nella tinozza. E poi, avanti un altro. L’igiene formale è il cemento dell’amicizia e il sidro ha pochi gradi e si può girare ancora, ancora, e l’amicizia diventa sempre più grande, grande… Quando vado a letto, mi rendo conto che ho avuto molto più tempo per apprezzare le stelle del cielo asturiano che il soffitto della mia camera.

La mattina è ancora piena di sole. Ci salutiamo con grande affetto; manca un signore – quello che pareva il più interessato e che scopro non essere un ospite, ma un abitante del paese – che stamattina doveva fare il giro per le consegne di qualcosa – il latte, mi è parso di capire; un colto lattaio cattolico tradizionalista: la Spagna non finirà mai di sorprendermi…. La coppia di signori catalani se ne va a camminare sulla collina alta che domina l’oceano, su un viottolo che segna visibilmente l’erba del prato. Li seguiamo con lo sguardo finché non diventano piccoli piccoli. Intanto, si è alzato il vento, portandosi appresso, fino a noi, il rumore e l’odore dell’oceano.

Guido Verna

1996

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