di Guido Verna
Per tornare a casa facciamo una via diversa, la via cantabrica, parallela al Camino ma più a Nord, sull’Oceano. Non possiamo attraversare e tantomeno fermarci in nessuna città, perché i chilometri sono tanti e il tempo a disposizione è ormai ridotto all’osso: mia suocera e la Madonna di Calvigi ci aspettano per ferragosto.
Lugo, il Locus Augusti, sono per noi solo mura romane possenti e torrioni che si inseguono, Oviedo solo un triste panorama di periferia, Gijon solo un cartello stradale; ma un altro cartello stradale, una freccia blu, ad Arriondas, non è solo una indicazione di direzione ma si trasforma in un lungo e felice brivido: Covadonga!

L’Islam, con una marcia che pareva incontenibile, in pochi anniera ormai risalito fin quassù, schiacciando su queste montagne quel poco di cristianità iberica ancora libera: un’altra spinta e i gorghi dell’oceano l’avrebbero risucchiata. Pelayo e i suoi cavalieri piantarono in terra la spada facendola Croce e chiamarono il Cielo a sostenere il loro coraggio. E il Cielo rispose e Pelayo vinse questa piccola, grande battaglia. E allora giù, verso l’Andalusia, guidati da Santiago sul suo cavallo bianco e la spada fiammeggiante. E, finalmente, ecco il lucore di Granada: la reconquista è compiuta! Erano i primi anni del 700 a Covadonga e l’aria era buia, fredda e umida; la luce e il caldo erano solo negli occhi e nei cuori di quei cavalieri; qui, davanti all’Alhambra, è il 2 gennaio del 1482 ed è inverno ma la luce e il colore e il calore sono dappertutto… Certo, è passato un po’ più di un giorno e di una stagione e di un anno… Ma il respiro del tempo, quando sono in gioco le civiltà, è ampio, amplissimo, ha il ritmo dei secoli e pretende dagli uomini non solo coraggio e abnegazione ma anche quella particolare e dimenticata specificazione della virtù della pazienza che è la pazienza storica.
«Dopo tanti secoli le colonne d’Ercole tornano ad essere spagnole: la penisola a forma di pelle di toro, con i fianchi bagnati dall’Oceano, restava pronta ad aprire le rotte del secondo Mediterraneo lungo le quali l’uomo della coscienza cristiana avrebbe svelato la realtà del Nuovo Mondo. A partire dal finis terrae dell’Europa restava aperto il cammino per la scoperta del finis terrae dell’Occidente» [1].
Ora che il piccolo regno di Oviedo è diventato il regno dei Re Cattolici, ora che l’ultima mezzaluna è calata all’orizzonte del cielo di Granada e il manto della Cristianità è tornato a stendersi sulla Spagna, ora si può salpare per allargare i confini di questo manto. Colombo finalmente può cominciare la sua missione e, nove mesi dopo, le bandiere e i fazzoletti sventolanti nelle mani di Isabella, di Ferdinando e della buona gente salutano chi va a portare Cristo (Cristo-foro) dal vecchio al Nuovo mondo, per rigenerarli insieme. Ma il vento che gonfia le vele delle tre Caravelle e agita quelle bandiere e quei fazzoletti è un vento che viene da lontano, dal Nord ma anche dalle profondità del tempo. Da quel giorno, a Covadonga…
Non c’è molto traffico e posso permettermi di allungare il brivido. C’è un’altra Cova che mi viene in mente, sempre nella penisola iberica ma in terra lusitana: la Cova de Iria, la Madonna di Fatima. La prima Reconquista è cominciata da quassù, dalla Cueva de Santa Maria, ed è finita – settecento anni dopo, ma bene, vivaddio! – a Granada.


La seconda è in corso ed è cominciata dalla Cova de Iria. Il Muro è caduto e sotto la polvere e le macerie è finito quel totalitarismo comunista che sembrava invincibile e che solo chi aveva creduto alla Madonna di Fatima sapeva che poteva finire. Quale sarà, allora, la nostra Granada? E quando? Sono domande oziose, inutili, a cui nessuno, tantomeno io, può dare risposta. Ma una cosa la so di certo: dovrò vivere nello spirito dei cavalieri di Pelayo, se voglio anzitutto compiere l’unica Reconquista che mi riguarda direttamente: la mia. E se voglio, insieme ad essa, che quel vento che faceva muovere i rami alla Cova de Iria possa un giorno – per i miei figli o i miei nipoti o chissà per quali pronipoti – gonfiare le vele di altre caravelle e muovere altre bandiere.

Ormai il bivio è lontano. Dovrò tornare [2] – quante volte ho pensato così, ma avrò tempo? – e salire lassù, tra i Picos de Europa, per inginocchiarmi sotto la Virgen di Covadonga e davanti al sarcofago del re Pelayo.


E poi mi affaccerò alla ringhiera della grotta e al mirador de la Reina per godermi il panorama.

Ma perché, immaginandomi a guardar giù dal mirador, mi pare di vedere in lontananza nebbie e ombre che offuscano il panorama e mi viene da pensare a Orlando, a Carlo Martello, a Giovanni Sobieski [3], a Skandenberg [4]?

Perché da quassù mi sembra di riconoscere anche le campagne di Poitiers e i riflessi del Danubio e il campanile di Santo Stefano e l’azzurro del mare di Otranto? Meglio rientrare e tornare ancora a pregare la Virgen e a salutare Pelayo. Fa anche freddo, quassù, e il brivido non vuole finire…
Guido Verna
1996
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[1] A.Caturelli, Il nuovo mondo riscoperto, Edizioni Ares, Milano, 1992, p.80-81.
[2] Il tornare è l’evidente leit motiv delle sensazioni che ho provato lungo tutto il cammino e che non ho cercato di nascondere, pur essendo consapevole che per tanti posti la prima volta avrebbe coinciso con l’ultima.
[3] Giovanni III Sobieski (1674–1696), re polacco, eroe delle grandi vittorie di Vienna e di Parkany in Ungheria (1683), con le quali fu inflitto un colpo decisivo alla potenza turca.
[4] Per una rapida ma completa biografia di Skandenberg, cfr. Zef Margjinaj, Piccolo compendio della grande storia dell’Albania, Edizioni Krinon, 1990, pp.35–45, da cui sono tratte anche le frasi in corsivo di questa nota. «Nel quindicesimo secolo si situa […] l’epopea nazionale albanese, scritta da un eroe fulgidissimo: Giorgio Castriota Skanderberg» (1405–1468), che — dalla battaglia di Torviollo (1444) fino all’assedio di Kruje (1467) — riporta contro l’esercito turco, molto più numeroso e meglio armato di quello albanese, una serie ininterrotta di vittorie leggendarie. «Le imprese di Skanderberg hanno in sé qualcosa di straordinario, anche e soprattutto dal punto di vista della Provvidenza». Muore invitto nel 1468, vittima delle febbri malariche. Il sogno turco di conquistare l’Albania per prendere infine Roma si era infranto sull’eroismo di Skandenberg e del popolo cattolico albanese, che insieme hanno rappresentato un «autentico antemurale della Cristianità». Nel successivo tentativo del 1480, il sangue degli ottocento martiri di Otranto non sarà sufficiente a fermarli subito; bisognerà aspettare l’anno successivo e la morte di Maometto II, perché il Re di Napoli liberi di nuovo la città (cfr. Alfredo Mantovano, Gli ottocento martiri di Otranto, in Cristianità, n.61, Piacenza maggio 1980). Ma nessuna goccia di sangue di un martire è mai inutile… Novant’anni dopo, il 7 ottobre 1571, la Regina delle Vittorie benedice a Lepanto il trionfo della flotta cristiana.
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