di Stefano Chiappalone
Nella storia dell’arte cristiana – e quindi di gran parte dell’arte occidentale – la presenza dei santi è dominante, certamente quali soggetti di innumerevoli pale, affreschi, sculture e vetrate, ma meno noto è il ruolo di alcuni di essi in veste di artisti. Scorrendo la lunga lista dei patroni ci si imbatte praticamente in tutte le molteplici attività umane, compresa l’attività artistica. San Luca evangelista, medico e – appunto – pittore, sarebbe stato il primo iconografo, stando a una tradizioneche gli attribuisce numerose icone mariane, dalla Madonna Costantinopolitana venerata a Padova, alla Salus Populi Romani della basilica di Santa Maria Maggiore, fino alla Theotokos di Vladimir, in Russia, per citarne solo alcune tra le più note.

Passano i secoli, trascorre l’intero primo millennio cristiano, mentre chissà quanti miniaturisti, i cui nomi sono noti solo a Dio, si saranno santificati nel segreto e nel silenzio degli scriptoria monastici,ornando pagine e pagine di codici. Del resto, è solo all’epoca di Cimabue e Giotto che i nomi degli artisti cominciano a emergere dall’anonimato e tra questi, anche i santi artisti: Guido di Pietro (1395-1455), insieme all’abito domenicano assume il nome di Giovanni da Fiesole. Ma sarà noto ai posteri con un altro nome ancora: Beato Angelico. E lo fu realmente: «angelico», come lo definì Giorgio Vasari, poiché completamente immerso nei misteri divini, incapace di dipingere un crocifisso senza versare lacrime a ogni pennellata; e «beato» poiché da subito avvolto da una fama di santità che solo nel 1982 è stata formalizzata a livello liturgico da san Giovanni Paolo II, che due anni dopo lo ha proclamato patrono degli artisti. Troppo ci sarebbe da dire su fra’ Giovanni, tanto ampio è il corpus pittorico che ci ha lasciato, limitandoci qui a ricordare solo alcune delle opere principali: l’intero ciclo di affreschi del convento fiorentino di San Marco, dalla plasticità asciutta e dalla sobria tavolozza che si direbbe destinata ai Certosini, più ancora che ai Domenicani; l’Annunciazione (oggi al Prado), in cui, a differenza dell’analogo dipinto fiorentino, il giardino circostante la scena diventa l’Eden in cui rivive – quasi come un flash-back – la cacciata di Adamo ed Eva, preludio al principio della Redenzione che vede protagonisti l’angelo e la Vergine, accesi da luci e colori ben più squillanti che paiono narrare una fiaba tardo-gotica; la Cappella Niccolina, affrescata con le storie dei santi diaconi Stefano e Lorenzo, per incarico di papa Niccolò V; o l’Incoronazione della Vergine del Louvre, tripudio per gli occhi e il cuore. Se le altre opere rappresentano una summa, questa è una vera e propria liturgia pittorica.

Beato Angelico
Più o meno coeva è l’opera di Caterina de’ Vigri (1413-1463). Pensando al ruolo delle donne nell’arte, generalmente si fa subito il nome della «caravaggesca» Artemisia Gentileschi (1593-1654), ma la prima pittrice tramandataci dalla storia dell’arte – salvo le greche Timarete, Aristarete e altre donne di cui ci sono giunti solo i nomi ma non le opere – è proprio questa monaca, forse più conosciuta per la sua vita mistica: santa Caterina da Bologna, nata da nobile famiglia ferrarese e poi prima badessa del monastero bolognese delle Clarisse del Corpus Domini. La cosa non dovrebbe stupire più di tanto: era infatti uso nei secoli passati che la musica e la pittura costituissero parte integrante del bagaglio educativo di molte famiglie aristocratiche. Capita tuttora, benché sempre più raramente, di trovare qualche anziana signora che in gioventù era stata educata anche alle arti visive, così come, un po’ meno raramente, tuttora si iscrive un figlio a un corso di musica senza che sia necessariamente un novello Mozart. Di suor Caterina restano le miniature delle sue stesse opere letterarie e alcuni dipinti tra cui una Madonna col Bambino i cui tratti stilizzati non oscurano la dolcezza della scena. Il Bambino tira con una mano il velo della Vergine, che gli offre un frutto – elemento ricorrente nell’iconografia cristiana – memoria del peccato originale e preludio della Redenzione. Caterina ci ha lasciato anche un autoritratto, inginocchiata ai piedi di sant’Orsola e compagne – raffigurando sé stessa più piccola delle protagoniste, secondo le cosiddette «proporzioni gerarchiche» in uso fino al Medioevo, e più oltre nel Nord Europa, non dovuta, evidentemente, a ingenuità o incapacità tecnica dei pittori, ma alla percezione del mondo naturale come immerso in una realtà più grande.

Non poteva mancare la perizia nelle arti nella figura poliedrica di sant’Alfonso Maria de’ Liguori (1696-1787). Laureato giovanissimo in utroque iure (cioè in diritto civile e canonico), avvocato di successo, poi prete, vescovo, infaticabile apostolo della penna – i suoi scritti gli varranno la qualifica di dottore della Chiesa, dopo l’elevazione agli altari , persino musicista, autore del celebre inno natalizio Tu scendi dalle stelle, e, appunto, pittore. Anche nel suo caso la dimestichezza con colori e pennelli risale alla «formazione integrale» degli anni giovanili, soprattutto grazie al padre che gli trasmise la passione per la pittura – di cui anch’egli si dilettava – affidandolo al suo stesso maestro, l’artista Francesco Solimena (1657-1747). Nei suoi dipinti, di cui si sarebbe servito quale mezzo di apostolato, ricorre frequentemente la figura di Maria e un impressionante crocifisso, di grande impatto, dal cui corpo piagato fuoriescono innumerevoli frecce.

Nel secolo XIX troviamo il polacco Adam Chmielowski (1845-1916), pittore, patriota e poi religioso col nome di frate Alberto. Tra le sue opere si annoverano paesaggi e scene di genere caratterizzati da una luce particolarmente intensa e un Ecce homo maestoso e sofferente, dal tratto non finito come se la stessa pennellata partecipasse al martirio del Cristo. In seguito a una profonda crisi abbandona la pittura e vive povero tra i più poveri di Cracovia, fondando la Congregazione dei Fratelli del Terz’Ordine di San Francesco, Servi dei Poveri. San Giovanni Paolo II, che lo ha canonizzato nel 1989, nel libro Dono e mistero allude a un misterioso legame tra la figura di Chmielowski e la propria vocazione: «Nella storia della spiritualità polacca, il Santo Frate Alberto occupa un posto speciale. Per me la sua figura è stata determinante, perché trovai in lui un particolare appoggio spirituale e un esempio nel mio allontanarmi dall’arte, dalla letteratura e dal teatro, per la scelta radicale della vocazione al sacerdozio».

San Rafael Arnaiz Barón (1911-1938) è un giovane trappista spagnolo, morto a soli 27 anni. Tra i molteplici interessi di questo ragazzo colto e benestante, laureato in architettura, si annovera la passione per l’arte e per ogni forma di bellezza, incluse la musica e la buona tavola. Tracciandone la biografia, l’abate di San Giuseppe di Chiaravalle a Flavigny, dom Antoine Marie, scrive che Rafael «sogna di disegnare, di dipingere, di esprimere su tela e su carta ciò che concepisce la sua anima di artista». «Nei suoi viaggi, porta con sé i suoi astucci di matite; ne ritorna sempre con una gran quantità di disegni di paesaggi, di bozzetti e di schizzi che, una volta terminati, vengono stipati in cartelline oppure donati». Un tratto ricorrente nella sua spiritualità è proprio la via pulchritudinis, su cui ci ha lasciato profonde meditazioni. Egli stesso scrive: «L’artista, che possiede un alto livello di sensibilità, è impressionato dalla Trappa e dalla vita dei suoi monaci come lo è da un dipinto o da una sonata». La contemplazione di “hermano Rafael” non si ferma all’ambito strictu sensu religioso, ma abbraccia tutto il cosmo in cui coglie un riflesso del Creatore. Questa figura, ancora poco conosciuta, sintetizza nella sua breve vita il legame tra la spiritualità e quella ricerca del bello che è costitutiva di ogni essere umano.
Commenti recenti