di Guido Verna

Usciamo per cena, camminando ancora sulla Rua do Franco. È piena di gente e di ristoranti che offrono mariscos e grigliate di pescados. Ma è piena – per chi è attento e coraggioso – anche di osterie (non so come si chiamino in galiziano) che, dietro solo un modesto bancone, offrono boccadillos e tapas. I nostri amici, che sono attenti ma non hanno ancora preso coraggio (ma poi, pian piano lo acquisteranno), vanno in un ristorante insieme a mia moglie. Io e i miei figli scegliamo invece un’osteria, per assaggiare i polpi alla gallega e le empanadas e per bere un po’ di Ribeiro, il vino bianco di Galizia. Ce lo servono in piccole coppe di ceramica bianca, sembra un po’ torbido, ma il sapore – acidulo, aspro – mi pare memorabile, malgrado qualche severo avvertimento contrario: «In Galizia attento al vino: quello sfuso, economico, è acido. I locali lo bevono mischiato a gasosa ben fredda, così perde la sua acidità» [1].

Una volta avrei saputo descriverlo meglio, oggi non più. In gioventù, in un certo periodo, leggevamo i libri di Huysmans, attratti soprattutto dal cammino della sua conversione ma anche, strada facendo, dalle sue descrizioni estenuate dei dettagli, fossero ceri o profumi o stati d’animo. Ma con un amico ormai perso di vista, quasi evaporato, insieme ai libri utilizzavamo spesso – come strumenti di esercitazione della nostra sensibilità nella percezione delle nuances del reale – anche bottiglie di vino, per fare l’assaggio meditato, per intravvedere il rosso scarico e il giallo paglierino, per intuire i profumi di viola mammola e di lampone, per catturare sul palato le rotondità e i retrogusti. Infine, per bere. Ma ce ne volevano molte, di bottiglie, per cogliere a pieno un vino: eravamo insensibili, con i sensi grevi o cos’altro ? Oggi i nuovi meditabondi sono esangui dirigenti d’azienda ed ortopedici quasi astemi, lyonesse svampite ed ambiziose donne in carriera, gente che legge Capital o Class e che, tra due bracciate ai Caraibi e una discesa a Saint Moritz, tra una seduta al beauty center e un salto in palestra, ha trovato il tempo anche per seguire il corso da sommellier e – con solo qualche goccia nel tastevin – capisce e pontifica di ammandorlato e di barrique, magari nella serata organizzata da arcigola – così chic, ma così chic! – tra ex sessantottini pingui ed ex femministe con le minigonne e le vene varicose, che adorano il gambero che è rosso ed è la metafora della loro vita.

Per parte mia, ho trovato conferma, con l’età, di quanto già intuivo perfettamente in gioventù, dietro gli estetismi di stagione e gli alibi formali: che ad un vino – come ad ogni cosa della vita, d’altronde –, per essere memorabile, non basta passare l’esame del palato e dell’olfatto. Ha bisogno di un contesto – e, forse, anche di una quantità, ancorché non eccessiva…– : di aria buona e di cibi ben cucinati, di amici autentici e del piacere di essere insieme, di ricordi e di speranze comuni, finalmente di animi sereni. Questo Ribeiro – con i miei figli a fianco e il polpo alla gallega sul bancone dell’osteria di Santiago – è un vino memorabile. Anche se, come in gioventù, ce ne vuole un po’ per capire…

La Piazza ora è vuota, con in fondo le luci dell’Hostal che lasciano presumere, oltre al calore dell’ambiente, il tutto esaurito… Ma sotto il portico del Pazo de Raxoi (o Rajoy) c’è gente; e c’è luce e c’è musica. Musica allegra, rasserenante, che scivola rapida sulle pietre bagnate della piazza e ci calamita.

Pazo de Raxoi

È una Tuna; non so se sia di medicina o di farmacia, di derecho o semplicemente compostelana, cioè un mix plurifacoltà; non so se sia autentica o per turisti: so solo che rimaniamo entusiasti a sentirli, insieme a tanti altri spagnoli, che, buon per loro, possono anche far coro insieme agli studenti vestiti con i costumi goliardici.

La Tuna Compostelana

Hanno facce sorridenti e per bene, gli studenti, facce più o meno giovanili, tranne il maestro che non sembra avere un’età propriamente scolastica. Non so se il suo pezzo forte sia Fonseca, dove si canta Adios my Universidad: ma da qualche ruga che gli segna il viso ho l’impressione che, se ancora è studente, difficilmente la canterà più con vibrazioni autobiografiche… Le mani sulle corde delle chitarre e dei mandolini si muovono con evidente perizia e a lungo, senza stanchezza, forse lubrificate dagli umori prodotti dal liquido che, ogni tanto, i suonatori ingurgitano dalle bottiglie continuamente rifornite da provvide ragazze. Non credo sia acqua. È un liquido che, da come cantano, anche senza gargarismi deve far bene pure alla voce… Se potessi assaggiarlo, sono convinto che lo troverei memorabile… Alla fine, ovviamente, compro le cassette che ci accompagneranno felicemente nel viaggio di ritorno. Prima di andar via assistiamo ad un rituale, a suo modo unico e divertente. Il maestro – che è un signore visibilmente claudicante per una gamba offesa – stende il suo mantello nero per terra e ci butta sopra i guadagni della serata. Poi, uno a te, uno a te, uno a me, li divide pubblicamente con gli altri. La Tuna se ne va e scompare assorbita dalla nebbiolina che intanto si è alzata: l’Apostol santo – le poche parole che catturo da una canzone – può ora finalmente riposare in silenzio, forse anche rasserenato, come noi, da questa piccola parentesi di gioia di vivere.

È la notte di San Lorenzo e le stelle continuano a cadere oltre la nebbia. Per una volta – la volta buona – stanotte guardiamo con gli occhi del cuore ad una stella che non cade, che rimane ferma ad esaudire i nostri desideri, lì, in fondo, oltre il Portico della Gloria…

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[1] E.Manzoni di Chiosca, op.cit., p.187.

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