17 settembre 1224
Tanto era l’amore acuto
che nel cor avea tenuto,
che nel corpo si è apparuto
de cinque margarite* ornato
Iacopone da Todi
*Margarite: perle
La curiosità può ostacolare e inquinare la conoscenza e il valore di questo prodigio. Conviene dunque metterla da parte e disporsi a ricevere quello che Dio ha voluto proporre alla nostra fede. Lasciando agli studiosi di analizzare il fenomeno per quanto umanamente possibile, ciò che più interessa è capire il senso di questo fatto.
Un monte devotissimo
La storia di san Francesco alla Verna comincia nel maggio del 1214. La Verna è al centro dell’appennino toscano, circa 50 km a nord di Arezzo.
Il nobile conte Orlando Catani di Chiusi nel Casentino, che ha molto desiderato di vedere Francesco, gli ha esposto i fatti della sua anima. Al termine del colloquio gli propone: “Io ho in Toscana un monte devotissimo, il quale è molto solitario e salvatico ed è troppo bene atto a chi volesse fare penitenza in luogo rimosso dalla gente, o a chi desidera vita solitaria. S’egli ti piacesse, volentieri il donerei a te e a’ tuoi compagni per la salute dell’anima mia”.
Il Conte fa pure costruire sul luogo capanne per i frati e una chiesa intitolata a Santa Maria degli Angeli. Questa generosità è sincera, davvero motivata e centrata sul valore spirituale: la salute dell’anima. Per i frati insiste anche: nessuna preoccupazione materiale deve impedire loro di dedicarsi alle cose spirituali e vuole che per ogni necessità si rivolgano a casa sua, “e se voi faceste il contrario io l’avrei molto per male”.
Star solitario
Francesco non cerca avventure escursionistiche ma vuole dedicarsi tutto al Creatore e con i suoi frati frequenta La Verna dove coltiva i desideri più profondi e si immerge totalmente nella contemplazione. Per i tempi di permanenza sul monte traccia per sé e per i frati un programma di vita:
“Questo è il modo del vivere, che io impongo a me e a voi. Io m’intendo di star solitario e raccogliermi con Dio e dinanzi a lui piagnere i miei peccati. E frate Leone, quando gli parrà, mi recherà un poco di pane e un poco d’acqua, e per niuna cagione lasciate venire a me veruno secolare”.
L’ultima volta che Francesco sale sul monte è nel 1224. Si prepara alla festa di San Michele, del quale, da buon medievale, è devotissimo. Vuole essere più solitario del solito. Cerca a lungo con frate Leone finché non trova “un luogo segreto e troppo atto secondo la sua intenzione”.
Qui vive in continua preghiera e penitenza. Si sente povero e peccatore, ma confida in Dio. Questa volta il Signore lo prepara con visioni e segni particolari a un fatto che l’uomo non potrebbe immaginare.
Chi sei Tu?
Frate Leone, l’unico a cui è permesso visitarlo una volta di giorno per portare pane e acqua e di notte per la preghiera di Mattutino, lo sente ripetere: “Chi se’ Tu, dolcissimo Iddio mio e chi sono io, vilissimo vermine e disutile servo tuo?”. E lui gli spiega: “Sappi, frate pecorella di Cristo, che quando io diceva quelle parole che tu udisti, allora erano mostrati all’anima mia due lumi: l’uno della notizia e conoscimento del Creatore, l’altro del conoscimento di me medesimo”.
Francesco si sta rendendo conto di un fatto grande: l’abisso che c’è tra l’uomo e Dio è superato da Lui con un altro abisso: quello della sua incommensurabile misericordia.
E per capire la misericordia chiede di sentire il dolore che Dio ha voluto soffrire per l’uomo.
Due grazie
“Signor mio Gesù Cristo, due grazie ti priego che mi faccia innanzi che io muoia: la prima è che in vita mia io senta nell’anima e nel corpo mio, quanto è possibile, quel dolore che tu, dolce Gesù, sostenesti nell’ora della tua acerbissima passione; la seconda si è ch’io senta nel cuore mio, quanto è possibile, quello eccessivo amore del quale tu, figliuolo di Dio, eri acceso a sostenere volentieri tanta passione per noi peccatori”.
E la misericordia di Dio risponde. Francesco, che ha sempre desiderato il martirio, non verserà il sangue per mano di persecutori, ma per mano di Dio lo verserà attraverso le ferite del Crocifisso impresse nel suo proprio corpo. Il fatto avviene in prossimità della festa dell’esaltazione della croce, che ancora oggi si celebra il 14 settembre.
La visione
Ascoltiamo Fra Tommaso da Celano (1185-1260) che, per incarico del papa Gregorio IX e di due successivi ministri generali dell’Ordine, ha raccolto in tre opere le testimonianze dei frati e, quasi certamente, anche la sua, poiché molto probabilmente alla morte del santo, 1226, era già tornato in Italia da un periodo di missione in Germania.
“Or ecco come avvenne l’apparizione. Due anni prima di rendere lo spirito al Cielo, nell’eremo detto della Verna, in Toscana, ove nel ritiro della devota contemplazione, ormai volgeva tutto se stesso verso la gloria celeste, vide in visione sopra di sé un Serafino che aveva sei ali, con le mani e i piedi inchiodati alla croce. (…) A questa visione si meravigliò profondamente, ma non comprendendo che cosa essa significasse per lui, fu pervaso nel cuore da gioia mista a dolore”.
“Era invaso da viva gioia e sovrabbondante allegrezza per lo sguardo bellissimo e dolce col quale il Serafino lo guardava, di una bellezza inimmaginabile; ma era contemporaneamente atterrito nel vederlo confitto in croce nell’acerbo dolore della passione”.
“Cercò subito di comprendere che cosa potesse significare tale visione e il suo spirito si rendeva ansioso alla ricerca di una spiegazione. Ma mentre, cercando fuori di sé, l’intelletto gli venne meno, subito nella sua stessa persona gli si manifestò il senso”.
“D’un tratto cominciarono infatti ad apparire nelle sue mani e nei piedi le ferite dei chiodi, nella stessa maniera nella quale poco prima le aveva viste sopra di sé nell’uomo crocifisso”.
“Le sue mani e i piedi apparvero trafitti nel centro da chiodi, le cui teste erano visibili nel palmo della mani e sul dorso dei piedi, mentre le punte sporgevano dalla parte opposta. Quei segni poi erano rotondi dalla parte interna della mani, e allungati all’esterna, e formavano quasi una escrescenza carnosa, come fosse punta di chiodi ripiegata e ribattuta. Così pure nei piedi erano impressi i segni dei chiodi sporgenti sul resto della carne. Anche il lato destro era trafitto da un colpo di lancia, con ampia cicatrice, e spesso sanguinava”.
Francesco vuole tenere segreto questo prodigio, perché non venga svilito da curiosità e chiacchiere il tesoro di Dio. Si consiglia, senza specificare il fatto, con i frati più intimi e gli viene fatto notare che le opere di Dio possono essere di aiuto a tante anime. E allora lui racconta loro quello che ha avuto. Ma la ferita del fianco la terrà sempre proprio molto riservata. Per tanto tempo molti dei seguaci e più devoti non ne sapranno nulla.
Però alla morte
“Si radunò una grande quantità di gente … accorse in massa tutta la città di Assisi e si affrettarono pure dalla zona adiacente per vedere le meraviglie che il Signore aveva manifestato nel suo servo. Vedevano distintamente il corpo del beato padre ornato delle stimmate di Cristo e precisamente nel centro delle mani e dei piedi, non i fori dei chiodi, ma i chiodi stessi formati dalla sua carne, anzi cresciuti con la carne medesima, che mantenevano il colore oscuro proprio del ferro, e il costato destro arrossato di sangue”.
Molti le vogliono toccare e baciare. Intorno alle stimmate avvengono prodigi e conversioni.
Il dono di Dio
è una risposta all’amore appassionato del santo. Lo scrittore sottolinea:
“Francesco era già morto a questo mondo, ma Cristo viveva in lui”.
E ancora, le stimmate hanno le radici nel cuore:
“Portava radicata nel cuore la croce di Cristo. E appunto per questo le stimmate rifulgevano all’esterno nella carne, perché dentro la sua radice gli si allungava profondissima nell’animo”.
Gli fa eco Iacopone da Todi (1230ca – 1306) nella sua Lauda LXII: le stimmate manifestano l’“amore acuto” del cuore di Francesco.
“Tu sei la nostra vita eterna,
grande e ammirabile Signore,
Dio onnipotente,
misericordioso Salvatore”
San Francesco
AR,settembre 2019
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