di Carla Vanni

In questi ultimi mesi la cronaca italiana ha raccontato, più frequentemente del solito, numerosi casi di violenza, in alcuni episodi anche causa di morte, avvenuti in piccole comunità in cui molti erano al corrente dei fatti.

Il pensionato di Manduria, ucciso ad aprile da una banda di bulli giovanissimi che lo vessavano da tempo, oppure il bambino di due anni ucciso a Cardito, in Provincia di Napoli, e che i vicini sentivano urlare perché veniva lanciato contro il muro dal patrigno. L’assassinio della bimba di otto mesi a Salerno, dove l’intero condominio era al corrente delle violenze che la famiglia subiva da parte del compagno della mamma. L’elenco sarebbe tragicamente lungo: i bambini piangono, gli adulti urlano, gli oggetti che si infrangono contro le pareti fanno rumore: nel caso di Cardito, gli infissi venivano addirittura smurati ed usati come bastoni per picchiare i due bambini. Clamoroso il caso della piccola Fortuna Loffredo, gettata da un terrazzo nel 2014 per essersi ribellata al suo violentatore, le cui pratiche turpi erano note all’intero maxicondominio se non addirittura alla madre della piccola martire. Sul suo corpo erano talmente evidenti i segni della violenza carnale da arrivare ad inorridire l’anatomopatologo che ha effettuato l’esame autoptico.

 E in tutti questi casi, a tragedia consumata, emerge che in molti sapevano, in molti vedevano, in molti sentivano ma nessuno ha preso alcuna iniziativa o l’ha presa in modo talmente blando da non modificare la situazione.

Per il povero pensionato di Manduria, i fatti avvenivano anche in mezzo alla strada, sotto gli occhi dei passanti: dopo la sua morte, in moltissimi hanno stoltamente dichiarato che i fatti erano noti all’intera comunità cittadina.

Ed allora una domanda: in tempi di Grande Fratello, di realities che ottengono audiences altissime, come mai per gli urli dei bambini nessuno spia e tanto meno parla? Quale eccesso di riservatezza ci coglie  quando i fatti altrui sono questi?

Il “caso GF”: notoriamente, questi programmi sollecitano le nostre miserie. Prima si sbirciava da dietro le persiane chiuse, si appoggiava l’orecchio alla parete.  Oggi, tecnologia connivente, ci si siede comodamente sul divano di casa e si sanno gli affari di quei poveretti che, pur di sbarcare il lunario nei mesi successivi, si fanno videovigilare e spesso anche relegare per lungo tempo in luoghi non sempre confortevoli. I momenti molto personali sono alla mercé di chiunque voglia vedere. Canali televisivi dedicati ed applicazioni per i nostri cellulari sono disponibili così da non perdere neppure un minuto dello “spettacolo”. Guardoni on line per ventiquattrore al giorno, se vogliamo.

Proviamo a dare una spiegazione a tanto successo che, seppur in declino, resta comunque notevole. La caratteristica vincente di questi eventi è l’accessibilità dei contenuti. Il GF et similia propongono un livello bassissimo di difficoltà di comprensione che non richiede sforzi di alcun tipo, particolari conoscenze, formazione, partecipazione, ragionamento o spostamento fisico. Non serve “sapere”. Occorre solo una minima capacità di ritenere ed elaborare molto superficialmente quello che vediamo. Per di più ci offre l’illusione di partecipare in qualche modo alla vita dell’oggetto osservato, di diventare in qualche modo familiare con quel “vip”.

Va ricordato che la costante frequentazione del “facile” è purtroppo molto diffusa: le conseguenze negative sull’attività del cervello sono rilevantissime poiché, se sin da piccoli siamo stati abituati ad interessarci a contenuti di elementare accesso, verosimilmente tutta la vita ci manterremo sugli stessi registri del nulla perchè il nostro cervello difficilmente saprà fare di meglio. E c’è da scommettere, con una ragionevole tranquillità, che gli spettatori del GF non siano stati troppo coltivati sin dalla loro infanzia. Non vogliamo entrare nel merito, ma solo ricordare che un’istruzione scolastica scadente non contrasta certo queste deleterie tendenze familiari.

Il caso “violenze” è del tutto opposto: quello è un buco della serratura che non viene offerto con disinvoltura, ma tutt’altro. Viene maldestramente tappato e la sua accessibilità è molto disagevole: il dolore, le urla, la violenza non sono certo un passatempo da divano perchè richiedono empatia, valutazione della situazione e, possibilmente a seguire, la riflessione, la decisione e la capacità di intervento. E queste non sono caratteristiche di chiunque.  Certi episodi non sono piacevoli da conoscere, per cui dobbiamo fare appello al nostro altruismo per intervenire, possibilmente in modo efficace.

L’altruismo è insito nell’uomo e negli animali ma con due precisi obiettivi, ovvero: per conservare il dna (altruismo parentale) o per una ricompensa (altruismo compensativo). Le api sono molto altruiste fra loro perché hanno in comune circa il 90% del dna. Il medico, che esercita una professione “altruista”, attende anche il legittimo riconoscimento economico della sua professione.

Queste condizioni non possono sollecitarci ad intervenire in favore di una vittima, di un indifeso, di un essere umano ridotto da suoi simili ai termini minimi che ci sia biologicamente estraneo e che non possa ricompensarci. Anzi, l’altruismo parentale viene spesso addirittura schiacciato dal degrado morale o dalla paura. Per intervenire, dunque, serve un altruismo “diverso”: quello che non si aspetta alcunché e che può provocare invece la perdita di qualcosa, di buona parte o di tutto il nostro, che può mettere anche a rischio la vita. Per intervenire in quelle situazioni serve l’altruismo evangelico, quello dei Santi, serve essere Santi almeno per un attimo della nostra vita: accollarsi la Croce altrui e vedere come va a finire…

L’empatia che genera la compassione, il coraggio, il senso della giustizia, l’amore per il prossimo nostro: questo ci muove.  Il coraggio ci fa vincere l’omertà: siamo pronti a rischiare, vogliamo occuparci di una persona o di una situazione, anche fino ad affrontare pesanti conseguenze. Vogliamo essere coinvolti, rischiare magari di venire sospettati a nostra volta. Non passiamo oltre. Ci è insopportabile ignorare le nostre responsabilità, ci fa sobbalzare un bambino che urla: tutto molto faticoso da comprendere, molto scomodo, poco divertente. Bisogna addentrarsi nelle tenebre per vedere o almeno intravedere cosa accada, è doloroso occuparsene ma decidiamo ugualmente di rischiare del nostro. 

Quelli di noi che tacciono, che neppure amano loro stessi e tanto meno il prossimo loro, cosa sentono? Il loro è un piccolo mondo fatto di partecipazione alla vita dei vip, di oggetti taroccati, di amicizie virtuali poco impegnative, di relazioni evanescenti, di impulsi ininfluenti, di tremori, di alzate di spalle. Non c’è spazio per la comprensione e il coraggio. C’è spazio per la paura ignorante, per l’astenia spirituale, avvolti come sono da una nebbia morale che ovatta gli urli, che cela gli sguardi angosciati ed i corpi prostrati dalla violenza. Un appannamento dentro cui non trovano neppure loro stessi e tanto meno Cristo, unica Via per uscirne. Restano là dentro, udendo senza ascoltare, vedendo senza guardare, sapendo senza compatire. Salvo poi frapporsi non fra il bene ed il male, ma fra questo e  la telecamera di turno per dire balordamente “.. io lo sapevo.”  Ovvero: “ .. mica dormivo, io..” Io, in definitiva.

Pochi giorni orsono la Chiesa Cattolica ha celebrato la memoria di San Massimiliano Maria Kolbe che, ben fuori da quella caligine, ha cercato e trovato il Volto di Dio dentro una cella di un metro per un metro da dove è uscita tale e tanta sua santità da illuminare l’umanità fino all’ultimo Giorno: ha guardato, ha ascoltato, ha deciso, si è offerto.

Roba da Santi, appunto.

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