“Anche se tutto si fa scuro, bisogna sempre essere fedele. Fedele a Dio e fedele agli uomini”

Giuseppe da Igualàda

 

 

   Spagna,  27 maggio 1850

Dopo tanti sudori, contrarietà e ostacoli, padre Josè Tous y Soler ha la gioia di aprire la scuola che tanto ha desiderato e per la quale ha tanto pregato. In questa data si celebra la memoria liturgica di questo fondatore. Una storia come tante, uno dei tanti Istituti, una delle tante scuole? Si può dire.

 

   Ma è utile

   ricordare che ciò avviene in un’epoca di turbolenze degli Stati in ricerca di nuovo assetto per la loro identità, di “provvedimenti di riforma” che comprendono la riduzione di diocesi e scuole, uccisione o esclaustrazione di religiosi, chiusura e confisca di strutture.

 

   Se si riflette

ai frutti aspri della guerra, ai detriti umani, agli odi non risolti e anzi ulteriormente provocati, ai frutti indegni dell’ignoranza come le violenze sui deboli e il loro sfruttamento con il facilissimo sbocco nella delinquenza, allora si vede come una scuola non è una cosa tra le tante. Tuttavia ricordare un personaggio solo per questo sarebbe fare torto alla storia.

 

   Il santo non è un filantropo

né uno che vuole mettere a posto tutte le cose. Il santo è un’anima che ama l’uomo per il suo vero bene. E bene eterno. E attinge questo amore non da sé, ma da Colui che ama tutti. Padre Giuseppe, come Gesù davanti alla folla, prova compassione perché vede tante pecore senza pastore. La scuola e l’Istituto fondato con questo scopo non è l’impresa della sua vita. L’impresa sua è fare la volontà di Dio per il bene delle anime.

 

   Quale è la storia di quest’uomo?

È nato ad Igualàda (Barcellona) il 31 marzo 1811. Fa la professione dei voti religiosi nell’Ordine cappuccino e nel 1834 è ordinato sacerdote. Ma gli anni 1834 e 1835 sono tremendi per gli Ordini religiosi. Sono incendiati conventi e uccisi religiosi. Spesso si tratta di azioni che sfuggono proprio a chi vorrebbe imporre un nuovo ordine alle cose ed avere tutto sotto controllo. Il 25 luglio in un assalto notturno al convento di Barcellona una turba esaltata brucia la porta della chiesa. I frati fuggono come possono. Alcuni sono presi e costretti ad andare in esilio fuori della Spagna.

 

   Dopo un mese di carcere

il nostro Giuseppe fugge in Italia. A Roma conclude gli studi di teologia. Lo troviamo a Greccio nel Natale 1836. Nel 1837 va a Tolosa, in Francia.

 

   A Tolosa

si stabilisce nel monastero delle Benedettine. Si dedica alla contemplazione e all’adorazione eucaristica, svolge tutti i servizi pastorali di un sacerdote, particolarmente la direzione spirituale per anime orientate alla vita religiosa. Vorrebbe seguire il fratello che parte missionario in Venezuela, ma la salute non glielo permette. Però il Padrone della vigna si servirà di lui in altro modo e il forte desiderio della salvezza delle anime sarà la sua valida motivazione per l’impegno, lì dove le circostanze storiche gli permetteranno di essere.

 

   Rientra in Catalogna

nel 1843, iniziando a lavorare nella Chiesa locale come sacerdote secolare, visto che non può praticare la vita conventuale né vestire l’abito cappuccino. Per questo vive con i genitori e lavora in varie parrocchie lì vicino, poi per quattro anni è coadiutore nella parrocchia di Esparraguerra. Dal 1848 è collaboratore stabile nella parrocchia di san Francesco di Paola.

Nella preghiera contempla e ama Gesù sulla croce e nell’Eucarestia. I suoi scritti si diffondono sul valore del silenzio, del raccoglimento interiore e della vita in preghiera. Ma la sua devozione, che non è privata né intimistica, lo spinge a occuparsi dei fratelli. Prova una particolare sensibilità per i bambini. Per loro promuove in particolare la “Pia Associazione della gloriosa bambina e martire santa Romana” e la devozione a Maria Madre del Buon Pastore. Svolge un apostolato molto vivace e fiorente che attrae tanta gioventù bisognosa di consiglio e aperta alla vita consacrata.

 

   Guarda oltre

le vicende del momento e pensa ai bambini e alla gioventù, che dovranno crescere e costruirsi la vita sulle macerie della rivoluzione e della persecuzione, che hanno disperso le forze cattoliche in Spagna. Invoca Maria santissima come “divina Pastora”. La Provvidenza gli prepara qualcosa: in alcune anime, che guida spiritualmente, scopre germi di una vocazione particolare. Le segue e le guida alla fondazione di una scuola per bambini e bambine. Adatta gli statuti di un istituto preesistente, studia la regola di Santa Chiara d’Assisi e adatta le Costituzioni cappuccine della beata Maria Angela Astorch (1592 – 1665, fondatrice di due monasteri in Spagna). Abbadessa perpetua sarà Maria, la Madre del Divino Pastore, che è il modello nella ricerca della volontà di Dio. Lo scopo è di attirare le anime a Cristo e di dedicarsi ai bambini e ai giovani.

Non mancano difficoltà, ma è abituato alla pazienza. La sua diligente ricerca e una grande prudenza, muovendosi solo quando è sicuro di avere scoperto la volontà di Dio, spiegano in alcuni momenti la sua lentezza a intervenire.

Attualmente le Suore Cappuccine della Madre del Divin Pastore hanno comunità in Catalogna, Murcia, nei Paesi Baschi e a Madrid. In America Latina sono presenti in Nicaragua, Costa Rica, Guatemala, Colombia e Cuba.

 

   La vita offerta fino in fondo

Un giorno passeggiando nell’orto p. Giuseppe si crede probabilmente solo. Lo si sente gridare: “Quando sarà, o mio Dio, che mi chiamerai a Te?”. Il postulatore della causa p. Alfonso Ramirez, che lo ha portato alla beatificazione, dice: “Al momento della sua morte, padre Tous non aveva alcuna malattia terminale. Ad ogni modo si crede che per le tensioni che doveva affrontare soffrisse di un forte esaurimento fisico, al punto da morire durante la Messa, proprio dopo la consacrazione, mentre pronunciava queste parole del Canone Romano: ‘Volgi sulla nostra offerta il tuo sguardo sereno e benigno, come hai voluto accettare i doni di Abele, il giusto…’. In quel momento si chinò e cadde”. L’offerta è gradita a Dio.

Il parroco di San Francesco di Paola va a raccogliere il suo corpo esanime e a terminare la Messa. È il 27 febbraio 1871.

 

   Padre Giuseppe

muore senza aver potuto vivere in comunità né riprendere l’abito cappuccino. Per chi vede dall’esterno non è facile capire la sofferenza causata da questa privazione. La vita di comunità, con i pregi e gli immancabili difetti umani, è possibilità di condividere la presenza di Dio, le gioie, le sofferenze, i fallimenti, i successi, scambio di esperienze spirituali e apostoliche, capacità di intesa.

Però anche in questa sofferenza padre Giuseppe ha amato la volontà di Dio, che sa scrivere bene sulle righe storte tracciate dall’uomo, anzi sa scrivere anche senza che l’uomo gliene faccia. Basta che gli accordi la sua fiducia.

Beatificato il 25 aprile 2010, nel pontificato di Benedetto XVI.

 

 

   “La gente oggi vuole la frutta matura prima che arrivi la stagione. Tutto passa per una relativizzazione delle cose: … Tutto dev’essere sperimentato prima … Ma la vita è una cosa più seria! il Beato Josè ci insegna: essere fedeli dall’inizio alla fine, in tutte le situazioni difficili della vita, ovunque il cristiano venga a trovarsi”.

(P. A. Ramirez, Postulatore della causa, intervistato il 25 apr. 2010)

 

 

AR maggio 2019

 

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