Il santo di oggi
18 maggio
Felice da Cantalice
Fra’ Deo Gratias
Cantalice (Rieti) 1515 – Roma 1587
“Signore, io ti raccomando questo popolo”
Felice da Cantalice
San Felice da Cantalice non è ‘uno dei tanti’ frati Cappuccini che bussano alle porte delle case per chiedere l’elemosina. Lo è. Ma è il primo canonizzato dell’Ordine. Soprattutto però è considerato come esempio, ispirazione e incoraggiamento da tutti i fraticelli, una lunga serie, che hanno svolto lo stesso e altri servizi ugualmente umili. È il frate che riscuote più affetto da tutti i cappuccini, anche da quelli che sono sacerdoti.
Il chiedere l’elemosina non è per semplice aiuto alla comunità dei Frati. È l’occasione per aiutare tanti bisognosi di pane, conforto, pace, fede, amore, comprensione, sani e malati. Questa è la vita di Felice a Roma e di tanti suoi confratelli in altri luoghi.
Presentiamo qui alcuni quadretti della sua vita.
Non per sé
ma per tutti. I beni materiali per i poveri, il conforto per i malati, la saggezza di Dio per i dubbiosi o sbandati, la preghiera per la conversione dei peccatori: “Signore, ti raccomando questo popolo”.
A volte escono fuori prodigi per malati, ma Felice svia l’attenzione da sé. All’ospedale san Giovanni un malato è già spedito dai medici. Vincendo la riluttanza degli infermieri, gli dà da bere del vino: “Via, non lo fate morir di sete!”. E quello si risana istantaneamente. In seguito ci scherzeranno: “Fra Felice, se mi ammalo, portami un po’ del tuo vino”. A un altro ‘già disperato’ dai medici: “Via, poltrone, alzati. Quello che ci vuole per te è il movimento, l’aria pura. Lascia cantare i medici!”. E quello lascia il letto e vive sano.
È un analfabeta
fra Felice, ma sa leggere cinque lettere rosse, le piaghe del Signore, e una bianca che è la Mamma sua. Da queste fonti di studio attinge sapienza da vivere e da vendere a teologi e predicatori.
L’amicizia di due santi
“Guarda: un santo dà da bere a un altro santo”. Una scenetta non proprio usuale: Filippo Neri, detto Pippo buono, in Via dei Banchi, presso la Zecca si sente intimare: “Bevi e vedrò se sei davvero umile”. È fra Felice. Il Fiorentino non se lo fa ripetere. Prende dal frate la zucca del vino e beve, mentre fra Felice se la ride allegramente. Però gliela fa pagare: gli pianta in testa il suo cappello ingiungendogli di continuare così la questua del vino. Fra Felice lo avverte: “Se me lo rubano o me lo fan volare il danno sarà tuo”. Ma poco più avanti uno dell’Oratorio (di san Filippo Neri) lo recupera perché non finisca tra le cose inutili del convento.
I due comunque non sono teneri tra di loro e si scambiano una litania di complimenti pesanti:
- Ti possa vedere abbruciato
- Ti possa vedere squartato
- Ti possa vedere impiccato
- E tu sii fatto a pezzi
- Ti siano tronche le mani
- E a te recisa la testa
- Possi essere frustato per tutta Roma
- E tu con una macina al collo possi essere gittato al Tevere
Si raduna gente che si meraviglia, si scandalizza, ammira; quando s’è fatto un certo gruppetto la catechesi si conclude:
- “Tutto questo possi tu sopportare per amore di Cristo”.
Non raramente, vedendosi, si corrono incontro, si inginocchiano l’uno addosso all’altro chiedendosi una benedizione, restando così a lungo senza che uno dei due decida di alzare la mano. A volte si abbracciano in ginocchio senza dire nulla, poi si separano. Ma i santi si capiscono. Chissà quali segreti si scambiano in questi silenzi.
Custodisce gelosamente
la sua devozione alla Madre di Gesù. Qualcosa traspare da una delle sue numerose strofette devote che insegna ai ragazzi facendogliele cantare con un motivo da lui stesso inventato:
- “Se tu non sai la via – d’andare in paradiso,
- vattene da Maria – con pietoso viso,
- t’insegnerà la via – d’andare in paradiso”.
Maria fa un atto di carità a fra Felice
Siamo probabilmente al Natale 1586, l’ultimo di fra Felice su questa terra. Padre Alfonso Lupo è un predicatore cappuccino. Chiede spesso consigli all’analfabeta fra Felice per i suoi scritti. Dopo la vigilia di Natale si ferma in chiesa, nascosto sul pulpito. Felice ispeziona la chiesa, come fa spesso, poi si ferma con le spalle alla porta d’ingresso. Pare che sia solo. Pregando, gradualmente alza la voce. Padre Alfonso sente. Poi un camminare leggero verso l’altare maggiore. Si sporge adagio ed assiste e ci testimonia una scena dolcissima: fra Felice tiene teneramente fra le braccia il Pargoletto divino, e gli fa festa con mille indescrivibili grazie, mentre una bianca figura luminosa di Donna assiste, alta. Poi sente quasi un lamento:
- “Oh, Dio! Dio mio, Gesù figlio di Maria, perché mai vi siete staccato così presto dal vostro povero fra Felice? Perché? Perché? Perché non portarmi via con voi in paradiso? Vi ringrazio, Vergine Madre mia! Vi ringrazio della carità fatta a questo misero servo e indegno frate. Ora nulla posso oltre aspettarmi dalla vita … Gesù mio, fate che io muoia subito, che non potrò mai morire più contento!”.
La morte di un santo
Il trenta aprile 1587 fra Felice cade infermo. Si è già licenziato dai suoi amici. Così al fattore di Alessandro Olgiati ha detto: “Giovanni, fratello mio, più io non verrò a prenderla la limosina. Con particolare affetto ti raccomando i miei fraticelli”. Qualche frate lo vorrebbe incoraggiare, ma lui: “Il somarello è cascato e non si leverà più”. La sua sensibilità semplice e austera di campagnolo reatino lo fa sentire a disagio su un letto di lana che per lui è una novità. Il Maligno approfitta: “Ah! Or ci sei cascato!”. E fra Felice per ben due volte toglie il materasso e resta sulle nude tavole. Ma l’infermiere gli ordina di rimanervi. Il demonio torna a sogghignare: “E tre!”. Ma lui: “Tu crepa, ché io ci sto per obbedienza!”. Torna ancora il tentatore insinuando dubbi e minacce di dannazione eterna. E fra Felice: “Tu non sei mio giudice. Tu sei dannato e io credo nella santa chiesa cattolica”.
La mattina del 18 maggio a un tratto solleva le mani, con il volto trasfigurato: “Oh, oh, oh!”. Fra Urbano gli chiede cosa accade. E lui: “Miro io la beata Vergine Maria da singolare corteggio d’angeli circondata”. Gli viene portata la Comunione che accoglie con l’antifona “O sacro convito, in cui Cristo è nostro cibo …”. Vuole che tutti i presenti dicano “Deo gratias”. Riceve l’olio degli infermi. Il sacerdote prega. Alle parole “Parti, o anima cristiana da questo mondo …” Felice si avvia in nome dell’obbedienza.
Deo gratias
È un atteggiamento di tutta la sua vita. Si sente debitore a tutti. Per questo ringrazia il Primo che creando ha dato tutto a tutti: Dio. Si sente debitore e in dovere di chiedere perdono a chi l’ha offeso. Ha scelto la povertà e “Il Signore m’ha reso padrone di tutti i forni di Roma”. Invita anche il terribile Sisto V a ringraziare Dio per il pane che lui, fra Felice, gli dà, il pezzo più duro e nero che trova nella bisaccia. Insegna “Deo gratias” ai bambini e ragazzi che gli corrono incontro.
Può insegnarlo anche a noi oggi, malati di autosufficienza?
Le citazioni sono da Il santo delle vie di Roma. Felice da Cantalice, di Mariano D’Alatri, Roma 1980.
AR maggio 2019
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