di Guido Verna
nov. 2004
Per la Rivoluzione sovietica, il primo ambito sociale da dissolvere era, evidentemente, quello più contiguo all’uomo, cioè quello della famiglia.
Nel Manifesto del partito comunista, Friedrich Engels (1820-1895) e Karl Marx (1818-1883), con sprezzo dei borghesi, mettevano subito in chiaro gli obbiettivi: «Abolizione della famiglia! Persino i più avanzati fra i radicali si scandalizzano di così ignominiosa intenzione dei comunisti. […] Ci rimproverate voi di voler abolire lo sfruttamento dei figli da parte dei loro genitori? Noi questo delitto lo confessiamo» [N1].
Ancora Engels, nel «[…] testo marxista classico […] Le origini della famiglia […] negava da tutti i punti di vista che la famiglia monogamica fosse un’istituzione naturale: era semplicemente un sottoprodotto di circostanze storiche specifiche che avevano accompagnato il trionfo della proprietà privata sulla proprietà comunitaria primitiva […]» [N2].
Quando il sole dell’avvenire finalmente splenderà, scriveva sempre Engels, «i rapporti dei due sessi diventeranno rapporti del tutto privati, che riguardano soltanto le persone direttamente interessate, e nei quali la società non avrà minimamente di che immischiarsi. Abolendo la proprietà privata, dando una educazione collettiva ai figli e sopprimendo la duplice base dell’odierno matrimonio — la dipendenza della donna dall’uomo e dei figli dai genitori — la società comunista rende possibile la descritta forma di famiglia» [N3].
La prima delle sovrastrutture borghesi da combattere era dunque «[…] l’idea di famiglia. Questa col suo carattere stabile, coi figli mantenuti ed educati presso i genitori, sarebbe null’altro che un ritrovato a uso esclusivo dei signori, un’istituzione legata al loro sistema economico […]. Quindi andrà combattuta senza infingimenti ipocriti o perniciose debolezze del proletariato divenuto dittatore […]; e le si dovrà sostituire un concetto più alto e più largo, corrispondente al nuovo assetto sociale collettivista: il concetto di libero amore, e della educazione collettiva dei figli» [N4].
Non sorprende, perciò, — come scrivono Mihail Geller (1922-1997) e Aleksandr Nekrič (1920-1993) nella loro Storia dell’URSS — che «il primo Codice sovietico, quello riguardante la famiglia e il matrimonio, fu adottato il 18 settembre 1918 [a cadavere caldo, appena un anno dopo la rivoluzione] e aveva lo scopo [appunto] di “rivoluzionare” la famiglia» [N5].
Continuo la citazione per la descrizione di qualche evidente — ma, almeno per me, non sorprendente — congruenza con i giorni nostri: «Quattro delle principali disposizioni ne facevano, per quell’epoca, un Codice rivoluzionario: si riconosceva validità solo al matrimonio civile (quello religioso veniva abolito) e non serviva il consenso di nessun terzo per sposarsi; veniva liberalizzato il divorzio: lo concedeva l’ufficio di stato civile, in caso di mutuo consenso, e il tribunale, qualora lo richiedesse una sola delle due parti; spariva il concetto di figlio illegittimo» [N6].
Da parte sua, quel «maestro» di pensiero e di azione che è Lenin [pseudonimo di Vladimir Il’ič Ul’janov, (1870-1924)], riteneva che «[…] non si può essere democratici e socialisti, se non si rivendica subito la piena libertà di divorzio, poiché l’assenza di questa libertà è una forma di superoppressione della donna» [N7], la quale: «[…] nonostante tutte le leggi liberatrici, è rimasta una schiava della casa, perché essa è oppressa, soffocata, inebetita, umiliata dalla meschina economia domestica, che la incatena alla cucina, ai bambini e ne logora le forze in un lavoro bestialmente improduttivo, meschino, snervante, che inebetisce e opprime» [N8].
La soluzione di tutte queste oppressioni — la liberazione dalle catene che si impongono vicendevolmente madre e figlio — consiste semplicemente, anzitutto, nel disumano passaggio di «proprietà» proclamato da Nikolaj Ivanovič Bucharìn (1888-1938) e Evgenij Alekseevič Preobraženskij (1886-1937), nel loro «[…] ABC del comunismo […], un manuale dell’“uomo nuovo” assai popolare negli anni Venti» [N9]: «[…] il bambino non appartiene soltanto ai suoi genitori, ma anche alla società» [N10].
Sia detto di passaggio: anche nella Rivoluzione c’è un cuore che batte, ma solo per chi è un fedele educatore: è il cuore «collettivo», quindi un Grande Cuore capace di ogni concessione. Perché, se è vero che «nella concezione marxista i figli appartengono alla collettività, che ha ogni diritto, [è pur vero che essa] […] potrà (se lo crederà opportuno) concedere ai genitori di educare essi stesi i loro figli, se sapranno dare un’educazione comunista»[N11].
Il bambino apparterrà pure alla società, ma ha ancora bisogno — a causa del riemergere continuo di quella «natura» — di chi lo educhi e lo prepari all’ingresso nella società stessa. Fedeli al coagula dopo il solve, sono perciò pronti anche i «nuovi genitori», anzi il «genitore unico» e comunisticamente uguale per tutti, come esplicitamente dichiarato da «uno degli artefici del Codice sulla famiglia e il matrimonio, un noto giurista […]: “È indispensabile sostituire alla famiglia il partito comunista”» [N12].
Ma la sostituzione, perché sia la più efficace possibile, ha bisogno di rapidità di esecuzione, senza tentennamenti sentimentali, come ha perfettamente compreso il Commissario all’Istruzione Pubblica Lunačarskij [Anatolij Vasil’evič, (1875-1933)] quando «[…] ha definito […] [così] l’azione che va intrapresa per modellare l’animo dei bambini fin dalla più tenera età, fin dalla età prescolastica (scuola materna): “…. Noi dobbiamo strappare al più presto i bambini al loro ambiente nocivo, isolarli da queste influenze nocive (contadina e piccolo-borghese) e sottoporli alla nostra influenza. Questo è più facile farlo con i giovani, ancora più facile con gli adolescenti, molto facile coi bambini in età scolastica e, infine, facilissimo coi bambini in età prescolastica, che per ora noi trascuriamo”» [N13].
Infine, un poeta comunista occidentale come Louis Aragon (1897-1982) — in una sua «ode» del 1931, dal titolo romantico Prélude au temps des cerises, ma in cui «canta» il desiderio di una polizia politica comunista in Francia — ci aiuta, come spesso riesce ai poeti, a cogliere lapidariamente il quadro d’insieme nel quale si situa la distruzione della famiglia:
«Canto la Ghepeù che si forma in Francia adesso
[…] Chiedo una Ghepeù per preparare la fine di un mondo
[…] Viva la Ghepeù immagine vera della grandezza materialista
[…] Viva la Ghepeù contro il papa e i pidocchi
[…] Viva la Ghepeù contro la famiglia» [N14].
Una ciliegia tira l’altra… Ma il tempo, di quelle ciliegie, avrebbe avuto solo il colore: quello del sangue.
Guido Verna
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[N1] Karl Marx – Friedrich Engels, Manifesto del Partito comunista, a cura di Franco Ferri, con una Introduzione di Palmiro Togliatti, trad. it., 14a ed., Editori Riuniti, Roma 1971, pp. 82-83.
[N2] Richard Pipes, Il regime bolscevico. Dal Terrore rosso alla morte di Lenin, trad. it., Mondadori, Milano 1999, p. 381.
[N3] F. Engels, Il catechismo dei comunisti, trad. it., con note originali di Eduard Bernstein (1850-1932) (unito a K. Marx e Idem, Il manifesto del Partito comunista), Edizioni del Maquis, Milano 1970, p.31.
[N4] Riccardo Lombardi S.I. (1908-1979), La dottrina marxista, Edizioni “La Civiltà Cattolica”, Roma 1947, p. 122.
[N5] Mihail Geller – Aleksandr Nekrič, Storia dell’URSS. Dal 1917 a Eltsin, trad. it., Bompiani, Milano 1997, p. 190.
[N6] Ibidem.
[N7] Lenin, Sull’emancipazione della donna, trad. it., con prefazione di Nadejda Konstantinovna Krupskaia (1869-1939) datata 30-XI-1933, Edizioni Progres, Mosca 1977, pp. 39-40, in Intorno a una caricatura del marxismo e all’«economismo imperialistico», scritto nell’agosto-ottobre 1916.
[N8] Ibid., p. 63, in La grande iniziativa (L’eroismo degli operai nelle retrovie a proposito dei «sabati comunisti») (Estratto), pubblicato nel luglio 1919 in un fascicolo a parte. Corsivi nell’originale.
[N9] M. Geller – A. Nekrič, op.cit., p. 192.
[N10] Nikolaj Ivanovič Bucharìn – Evgenij Alekseevič Preobraženskij, Abc del comunismo, trad. it., Newton Compton, Roma 1975, p. 208.
[N11] Giorgio Loiacono S. J. [(1910-1994)], Il marxismo, 3a ed. riveduta e ampliata, Edizioni Domenicane Italiane, Napoli 1967, p. 109.
[N12] M. Geller–A. Nekrič, op.cit., p. 192; il riferimento degli autori riportato in nota è ad A. Gojhberg (?-?), Zakon o brake, Mosca 1922, p. 63. Per capire meglio lo spirito soggiacente all’enfatizzazione totalizzante del ruolo del partito, può aiutare questa citazione di François Furet (1927-1997): «In realtà, i bolscevichi si considerano gli unici depositari del destino e del senso della Rivoluzione d’ottobre, attraverso il partito in cui si sono riuniti, sotto l’autorità di Lenin. La legittimità del partito non sta nell’elezione da parte del popolo, ma nella conoscenza delle leggi della storia, costantemente arricchita dalla “prassi”: da qui il carattere unico, incomparabile del partito, e la giustificazione del suo monopolio» [François Furet (1927-1997), Il passato di un’illusione. L’idea comunista nel XX secolo, trad. it., a cura di Marina Valensise, Mondadori, Milano 1995, p. 122]. La citazione ha molto interesse anche per il presente, perché descrive un modo di pensare e di autolegittimarsi che non è finito allora ma che invece ha attraversato il tempo per riemergere insistentemente in questi giorni, pur con il Partito non più strutturato e strutturante, che, se da un lato ha ridotto lo zoccolo duro, dall’altro ha cercato di tenere le frange, per non perderle, incollate non più al suo progetto totale di società ma, a seconda delle varie sensibilità, a parti di esso (dagli ecologisti al mondo gay, dai cacciatori ai degustatori di vino, dai patiti di osterie a quelli dei ristoranti chic, dagli antiglobal ai cattolici democratici per la pace e così via).
[N13] Anatolij Vasil’evič Lunačarskij, cit. in Dizionario del gergo comunista. La tecnica della falsificazione nel linguaggio comunista, Edizioni «Documenti», Roma 1966, p. 264, voce Scuola..
[N14] Cit. in S. Courtois – J-L. Panné, Il Comintern in azione, in Stéphane Courtois e altri, Il libro nero del comunismo. Crimini, terrore, repressione, trad. it., Mondadori, Milano 1998, pp. 255-311 (p. 288). La poesia citata è assunta dall’autore da Jean Malaquais [trasposizione in francese di Vladimir Malacci, ebreo di origine polacca (1908-1998)], Le nommé Louis Aragon ou le patriote professionel, supplemento di Masses, febbraio 1947
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