di Guido Verna

nov. 2004

 

Solženicyn [Aleksandr Isaevič, (1918-2008)] dedica a «I Minorenni» uno splendido capitolo del suo Arcipelago Gulag [AS], che — se vivessimo in una nazione con una memoria storica minimamente onesta e non già intorbidita e inquinata dai pre-giudizi ideologici — dovrebbe essere una lettura obbligata in qualsiasi scuola, perché, da solo, sarebbe sufficiente ad illustrare compiutamente quest’aspetto dimenticato — il suo rapporto con i minori — della tragedia comunista.

La Cartina del Gulag

«L’Arcipelago ha molti modi di mostrare i denti, ha molti grugni e non è piacevole da vedersi da nessuna parte; ma forse le fauci più ributtanti sono quelle con cui inghiotte i minorenni» (p. 450): è l’incipit del capitolo, ma potrebbe essere anche la sua conclusione. Le fauci — la falsa nonna di Cappuccetto Rosso! — non si aprivano, però, solo intorno ai besprizorniki, «[…] quegli orfani cenciosi che dappertutto brulicavano, rubavano, accendevano fuochi per scaldarsi, e senza i quali non si può immaginare la vita delle città negli anni Venti. […] Erano diventati orfani a causa della guerra civile, della conseguente carestia, della disorganizzazione, delle fucilazioni dei genitori, della loro morte al fronte» (ibid.): per loro, in fondo — che erano «[…] ragazzi abbandonati, [e che] venivano presi dalla strada, non dalle famiglie» (ibid.) — c’era anche l’«affetto» di Makarenko [Anton Semenovyč, (1888-1939), pedagogista e “educatore” sovietico]  e degli «organi», c’erano «[…] colonie di delinquenti minorenni, […] case di lavoro  per minorenni […],comuni di lavoro della GPU”» (ibid.).

Ma degli altri minorenni presi nelle fauci che non erano orfani ma ancora figli, chi ne parla?  «Dove se non in questo capitolo menzionare i figli rimasti orfani per l’arresto dei genitori?  […] Quanti minorenni furono reclusi fin dagli anni Venti (ricordiamoci quel 48%) in seguito all’ordine di separare bambini e genitori? E chi ci racconterà il loro destino?» (pp. 466-467).

Come — una per tutti —  Galja Venediktova, figlia di « […] un tipografo di Petrograd anarchico […] [e di] una cucitrice polacca» (p. 467) che, il mattino dopo la festa del suo sesto compleanno, «[…] al suo risveglio non trovò più  né il padre  né la madre [bensì]  un militare sconosciuto [che] stava frugando tra i libri» (ibid.). Il papà finì fucilato e la mamma morì in prigione. Galja fu messa in un orfanotrofio — il cui direttore, ogni mattina, le ricordava il Grande Cuore della rivoluzione: «Siete figlie di nemici del popolo, eppure vi danno da mangiare e vi vestono!» (ibid.) — e  «a 11 anni subì il primo interrogatorio politico. Ebbe dieci anni, che [ancora il Grande Cuore!] non scontò per intero» (ibid.).

 

Il Gulag femminile

 

Il Grande Cuore trova conferma anche nel racconto di questo episodio: «Furono relativamente fortunati i figli delle donne d’una comune religiosa nei pressi di Chosta. Quando nel 1929 le madri furono spedite alle Solovki, i ragazzi, per indulgenza, furono lasciati nelle case e nelle aziende. Lavoravano da soli gli orti e i frutteti, mungevano le capre, studiavano con zelo, e mandavano le pagelle ai genitori nelle Solovki assicurandoli di essere pronti a soffrire per Dio come le loro madri. (Beninteso il partito in breve offrì loro questa possibilità)» (p. 466).

 

Ma quello che nel citato capitolo è di straordinario interesse per i tanti riverberi che getta sul nostro tempo, è la descrizione umana e psicologica e il modello organizzativo di questi minorenni, la cui tragica avventura comportò, fra l’altro, anche un «aggiornamento» linguistico, un neologismo, per descrivere questa inaudita nuova condizione:  «Quando i dodicenni varcarono la soglia delle celle per adulti, equiparati a questi come cittadini con pieni diritti, equiparati nelle pene pazzesche, di durata quasi uguale a tutta la loro vita incosciente, […] allora il vecchio termine della rieducazione comunista “minorenni”  si svalutò, divenne vago nei contorni, mancò di chiarezza e lo stesso GULag partorì la sonora e sfacciata parola malolétka [malo=pochi + let=anni  (nota originale)]: e gli stessi tristi, piccoli cittadini, cittadini non ancora del paese, ma già dell’Arcipelago, presero a ripeterla parlando di sé, con aria fiera e amara» (p. 454).

Oltre la soglia, i bambini diventano rapidamente uomini, «uomini nuovi» davvero: «Quelle teste di dodici e quattordici anni furono di colpo investite da un sistema di vita a cui non potevano resistere uomini maturi e coraggiosi. […] Come in giovanissima età si imparano facilmente le lingue, o nuove usanze, così i malolétka acquistarono di corsa anche il linguaggio dell’Arcipelago — cioè il linguaggio dei delinquenti — e la filosofia dell’Arcipelago — ma di chi era, quella filosofia?» (ibid.).

 

Gulag : stanza dei prigionieri

 

 

Oltre la soglia, cominciano rapidamente a costruire il loro carattere, assorbendo da quella nuova vita la sua «[…] essenza disumana, tutto il suo succo velenoso e marcescente, e con estrema facilità, quasi avessero succhiato fin dalla prima infanzia, non il latte, ma quel succo» (ibid.).

 

 

Il lavoronel Gulag

 

 

 

Oltre la soglia, vedono «[…] il mondo come appare agli occhi dei quadrupedi: soltanto la forza è giustizia! soltanto il rapace ha diritto di vivere! […] E in pochi giorni diventano bestie. Anzi, le peggiori bestie, senza alcun concetto etico […]. Il malolétka impara: se qualcuno ha i denti più deboli dei tuoi, strappagli il boccone, è tuo» (p. 455).

Della «[…] Grande Dottrina sulla Società […] » (p. 457) se è vero che «di tutti quei semi, soltanto quelli dell’odio […] vengono assimilati» (ibid.)   è vero anche e soprattutto che ne hanno perfettamente assimilato il principio di fondo, traducendolo però in termini personali e/o di gruppo: «Non esiste, nella loro coscienza, una bandierina di segnalazione fra quanto è lecito e quanto non lo è, e assolutamente non hanno nessun concetto del bene e del male. Per essi è bene tutto quello che vogliono, male quanto è loro d’ostacolo» (p. 460).

Se questo è il loro carattere e la loro morale, il loro modello organizzativo e operativo è invece il seguente: «[…] gettati nella mischia di un mondo crudele, i minorenni non lottano l’uno contro l’altro. In un altro malolétka, non vedono un nemico. Entrano in quella lotta come collettivo, come una schiera. […] È la legge del mondo dei ladri che li sta impregnando. Infatti i ladri sono uniti, i ladri hanno la Disciplina e i Capibanda. E i malolétka sono i giovani esploratori della malavita, fanno propri i precetti dei più anziani» (p. 456).

Il loro rapporto con gli adulti si fonda su una chiara e precisa autocoscienza, giacché essi «[…] conoscono benissimo la propria forza. La prima è la compattezza, la seconda l’impunità» (p. 457). Sono turbolenti, aggressivi, cattivi — «[…] il loro divertimento principale e simbolo sono le corna: segno di saluto e di minaccia, l’indice e il mignolo divaricati, come piccole mobili corna pronte a cozzare. Non cozzano, cavano gli occhi, verso i quali sono sempre tese» (p. 464) —, ma in fondo  «[…] non sono malintenzionati, non pensano di offendere, non fingono: non considerano realmente persone nessuno all’infuori dei ladri e di se stessi. […] Parlano a voce alta, […] bestemmiano Dio, Cristo, la Madonna, urlano qualunque oscenità su perversioni sessuali senza badare alla presenza di donne anziane e tanto meno di quelle giovani» (p. 463).

Trovo francamente impressionante l’«attualità» sia del profilo psicologico che delle modalità di aggregazione e di relazione dei malolékta. L’Arcipelago è chiuso: ma tutto il mondo, oggi, è febbricitante perché infettato dai suoi virus. Se si vogliono rimuovere gli effetti, bisogna risalire alle cause: ma, lo ripeto ancora, è una considerazione tanto ovvia e stantia quanto «impraticata», forse perché «impraticabile» per il rischio di vedere spegnersi definitivamente quelle luci che, sebbene affievolite, ancora oggi continuano colpevolmente ad illuminarli — da parte dei molti, anzi della moltitudine, non solo e non tanto comunista, che allora ha taciuto e che oggi vorrebbe rapidissimamente rimuovere quelle vergogne del passato che  coincidono spesso con le vergogne del «loro» passato.

Lenin Il mondo di Galja

Esco dall’Arcipelago con un messaggio di speranza, con una luce intensissima, come accade spesso dove c’è tanto buio. Torno a Galja Venediktova. A quarant’anni, nel 1967, vivendo oltre il Circolo Polare, scrive così a Solženicyn: «La mia vita finì con l’arresto di mio padre. Lo amo ancora tanto che mi fa addirittura paura pensarci. Era un altro mondo, e io ho l’anima malata d’amore per quel mondo» (p. 467).

Quel mondo con la storia finalmente «liberata» e, quindi, con la verità finalmente evidente quel mondo, dicevo, può ancora tornare. Lo può soprattutto se molti si faranno contagiare dalla «malattia dell’anima» di Galja.

 

Guido Verna

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[AS] Aleksàndr Isaevič Solženicyn, Arcipelago GULag. 1918-1956. Saggio di inchiesta narrativa, vol. II,  trad. it.,  Mondadori, Milano 1995, pp. 450-470. Tutti i riferimenti di pagina fra parentesi nel testo del paragrafo rimandano a quest’opera.

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