di Guido Verna

nov. 2004

 

Molti poveri russi sovietizzati forse non hanno saputo fare i padri perché non sono mai stati figli.

E non sono stati mai figli, forse perché hanno avuto alle spalle storie come queste.

 

I bambini nel Raccolto di dolore

Il capitolo che Robert Conquest ha intitolato proprio «I bambini» nel suo libro Raccolto di dolore [RC-1] — uscito negli Stati Uniti nel 1986 ma colpevolmente pubblicato in Italia solo nel 2004 e dedicato a quella che, nel risvolto di copertina, è indicata come la «“Grande carestia, l’atroce moria per fame (Holomodor) che, tra il 1932 e il 1933, uccise in Ucraina milioni di persone» — comincia così: «Un’intera generazione di bambini delle aree rurali di tutta l’Urss e dell’Ucraina in particolare fu annientata o segnata per sempre. Ed è evidente che l’importanza che tale evento ha avuto per il futuro del paese è difficile da esagerare. Da un punto di vista umano non c’è bisogno di dire che, nell’ambito di questa immensa sventura, il destino dei bambini colpisce in modo particolare, ma è anche vero che per il futuro stesso del paese, sia la decimazione di un’intera generazione che l’esperienza di chi è sopravvissuto hanno avuto delle conseguenze che è possibile avvertire ancor oggi» (p. 327).

 

La macchina della menzogna

In quegli anni terribili, la «macchina della menzogna» cominciò a muoversi a pieno regime: «La carestia fu il fulcro della mistificazione più sfacciata e di più ampia portata mai espressa dallo stalinismo fino ad allora. Mentre milioni di persone morivano di inedia, si negò del tutto l’esistenza di una carestia. Tale versione venne adottata non soltanto per il mondo esterno, ma persino in Unione Sovietica. Solo alcuni anni fa fu ammesso che c’era stata una carestia. E persino allora, almeno per un certo periodo fu attribuita alla siccità (anche se gli studi sovietici del settore non registrano siccità nel periodo considerato). Poi si riconobbe che era stata causata da disposizioni governative, ma con la precisazione che si era trattato di un errore, e non di un provvedimento mirato consapevolmente a diffondere la fame. La verità è emersa tra il 1988 e il 1990, e ora succede spesso di leggere relazioni di questo tenore: “La carestia del 1932-1933 fu organizzata con premeditazione dalla classe dirigente di Stalin; fu scelta in quanto costituiva uno dei sistemi più efficaci per contrastare la popolazione rurale, che si opponeva all’imposizione forzata di «forme di cooperazione più avanzate» (“Novyj mir”, 9, 1989). “Stalin organizzò questa carestia in modo del tutto consapevole e pianificato” (“Sovetskaja kul’tura”, 1° ottobre 1988). “L’ostilità per la popolazione rurale, la sfiducia verso di essa fu alla base della politica della carestia” (“Sobesednik”, 49, novembre 1988). E in “Literaturnaja Ukraina” (18 febbraio 1988) viene definita a chiare lettere una “carestia omicida”» [RC-2].

La «macchina della menzogna» produsse anche qualche doloroso ma illuminante effetto «interno», perché, come ricorda nel suo famoso libro Ho scelto la libertà Victor Andreevich Kravchenko (1905-1966), a quel tempo ancora comunista, l’ «[…] assordante propaganda [per la trionfale conclusione del Piano quinquennale, che coincideva con la carestia] non riusciva tuttavia a soffocare completamente i gemiti dei morenti e, per qualcuno di noi, il baccano che si faceva incessantemente sulla nuova “vita felice” era ancora più spaventoso della carestia stessa». La «vita felice» della rivoluzione sovietica la percepì compiutamente forse proprio quella mattina quando fece il giro nel villaggio ucraino: «Non ho parole per descrivere gli orrori che vidi […]. Sul campo di battaglia si muore presto; si ha almeno la possibilità di difendersi; si è sostenuti, infine, dallo spirito del corpo e dal sentimento del dovere. In quel villaggio stremato dalla fame, la gente moriva a piccolo fuoco, lentamente, orribilmente, nella solitudine più completa e senza neppure avere la consolazione di sacrificarsi per una grande causa» (Ibid., p.81). La malvagità del sistema e dei suoi capi la avvertì definitivamente forse proprio quella mattina, quando, di fronte a tanto orrore, si rese conto che «Era stata sufficiente la decisione di pochi uomini, in una capitale lontana, davanti al tappeto verde di una conferenza o alla tavola ben guarnita di un banchetto, per trasformare tutta quella povera gente in veri animali presi in trappola che si lasciano morire di fame, ciascuno nel proprio angolo» (Ibidem). Il coraggio di scegliere la libertà e di combattere il comunismo lo trovò forse proprio quella mattina, quando si trovò davanti «Lo spettacolo più pauroso […] [:] quello dei bambini, con le membra di una magrezza scheletrica, e i ventri enfiati e grossi come palloni. La fame aveva cancellato dei loro piccoli visi ogni taccia di gioventù; solamente i loro occhi conservavano ancora qualcosa dell’ingenuità infantile» (Ibidem).

 

Uno dei punti più alti raggiunti dalla malvagità umana

Torno al capitolo — davvero impressionante — del libro a cui ho prima fatto riferimento: è tutto da leggere e da meditare, perché è il racconto dei uno dei punti più alti raggiunti dalla malvagità umana.

Si potrebbe pensare che durante la carestia ucraina i bambini siano state vittime tra le altre, giacché le carestie non hanno cuore anagrafico, anzi infieriscono implacabilmente sui più deboli. Se questo è sempre vero, qui c’è però un terribile di più, perché «la guerra ai bambini venne giustificata come una necessità storica, e la mancanza di sentimentalismo “borghese” nell’attuare le decisioni del partito venne considerata elemento essenziale e banco di prova per il vero comunista» (p. 327).

La guerra ai bambini!

Con queste raccomandazioni: i «[…] compagni che vengono nelle campagne per le consegne di grano — [come un giornale didattico aveva visto fare da alcuni di essi] — raccomandino di fare tutto per incoraggiare atti di persecuzione nelle scuole contro i figli dei kulaki, utilizzando tali mezzi come forma di pressione sui genitori che nascondono dolosamente il grano» (pp. 327-328); «[…]”Non pensare ai figli dei kulaki; nella lotta di classe la filantropia è un male”», come si sentì aspramente rimproverare «un segretario di un comitato distrettuale, [per aver proposto di lasciare] […] ai kulaki le sementi sufficienti perché potessero seminare e nutrire i propri figli […]» (p. 328).

Con questa logica soggiacente: «Una classe economica come quella dei kulaki, che il regime era impegnato a distruggere, consiste tanto di adulti quanto di bambini» (Ibidem).

Con questo senso della giustizia: «Il coinvolgimento dei bambini nei reati in cui erano implicati i loro genitori costituiva una pratica molto comune [se è vero che] […] i bambini, così come le mogli, vennero spesso condannate con la sigla Čsir, ovvero “membro della famiglia di un traditore della patria”: un’accusa impossibile da confutare» (Ibidem) e che, a piacimento dei carcerieri, poteva dilatarsi a ritroso, come toccò al sedicenne Petraškevič che, come «membro della famiglia»,  fu condannato a dieci anni e si ritrovò alla Kolyma, perché «il nonno […] (non il padre, il nonno!) era un noto nazionalista ucraino […] [e perciò] […] nel 1937 era stato [già]  fucilato suo padre, un maestro ucraino» [VS].

 

Gli “orfanotrofi”, le “città dei bambini” … fino al “mattatoio per bambini”

La guerra poteva essere condotta anche organizzando «orfanotrofi» e «città dei bambini» sui generis, come quelli di Kirovgrad, dove «[…] c’era una volta [ma non è l’incipit di una favola, bensì di un racconto del terrore…] un mercato coperto, che fu chiuso quando venne proibito il commercio privato, e alcuni degli edifici lasciati vuoti vennero trasformati in orfanotrofi. I contadini portavano i loro figli in città e li abbandonavano lì perché venissero accolti. Durante la carestia l’orfanotrofio si sovraffollò in misura tale che non fu più in grado di provvedere a tutti i bambini. Questi furono quindi trasferiti in una “città dei bambini”, dove vivevano “all’aperto”. In questa “città” essi non ricevevano niente da mangiare e morivano di fame, lontani dagli occhi della gente. La loro morte veniva di solito registrata come causata da un cedimento del sistema nervoso. La “città” era circondata da un muro, perché la gente non potesse guardarvi dentro; si potevano però sentire “terrificanti grida disumane […] le donne si segnavano e fuggivano via”. Per nascondere l’entità dei decessi, i camion portavano via i cadaveri solo di notte. Essi cadevano dai camion così di frequente che ogni mattina l’incaricato responsabile controllava il suo “territorio” per assicurarsi che non ci fosse qualche corpo caduto. Le fosse dei cadaveri erano così stracolme e così malamente ricoperte che i cani e i lupi recuperavano parte dei corpi. Il dottor Činčencko calcola che migliaia di bambini fossero morti in tale modo a Kirovgrad. [Ma] «[…] anche “orfanotrofi” meno improvvisati potevano rivelarsi altrettanto micidiali» (p. 336).

Come l’asilo infantile di Uljanivka, raccontato così da un funzionario del commissario dell’Istruzione «[…] un capannone in pietra, con il pavimento coperto di sabbia: nella semi-oscurità si trovavano circa duecento bambini dai due ai dodici anni, scheletrici e con indosso soltanto una camicia sporca. Tutti imploravano del pane. Quando egli domandò chi si occupasse di loro ricevette la sardonica risposta: “Il partito e il governo”. L’occuparsi di loro consisteva soltanto nella quotidiana rimozione dei cadaveri» (pp. 336-337).

O come l’orfanotrofio di Černouch, dove «una ragazza che era stata portata in cattive condizioni […], venne caricata su un camion pieno di cadaveri. Ma la fossa comune non era stata ancora scavata, per cui i cadaveri vennero tutti ammucchiati da una parte. La bambina riuscì quindi a strisciare fuori e venne poi salvata dalla moglie di un medico ebreo» (p. 337), il dottor Moisej Feldman.

O come quello, «in un’altra regione, [dove]  un bambino di dieci anni e sua sorella di sei, in seguito alla morte dei loro genitori vennero portati […], [e che era costituito da] una vecchia casa di contadini con le finestre rotte e dove il cibo era insufficiente. L’infermiere responsabile faceva scavare le fosse nel cimitero ai ragazzi più grandi e vi facevano quindi seppellire i compagni che morivano. Infine, dovette applicare tale sistema anche per far seppellire sua sorella» (Ibidem).

La fame condusse fino al cannibalismo — «[…] e in molti casi si trattò di bambini mangiati da uno dei genitori» (p. 330) — e, ancora peggio se mai fosse possibile, fino all’orrore organizzato: «A Poltava, alcuni criminali costituirono perfino un vero e proprio mattatoio per bambini, che venne poi scoperto dalla Gpu (e questo non costituì un senso unico, in quanto si registrarono almeno altri due casi analoghi)» (p. 332).

 

Le bande dei bambini senzatetto e affamati

L’unico modo che avevano per sopravvivere, era unirsi in gruppi. Le bande dei senzatetto affamati e laceri riempivano le stazioni ferroviarie, mangiavano gatti e uccelli e rubavano quel che potevano. Diventarono terra di raccolto per le bande criminali, ma anche per la spietata polizia segreta, come accadde «[…] nella “colonia” di Belovečensk, vicino a Maikp, nel Caucaso settentrionale, [nella quale] “la metà dei ragazzi venne mandata all’età di sedici anni in scuole speciali della Nkvd dove furono addestrati a divenire futuri čekisti”. Questi ragazzi venivano spesso scelti tra gli elementi criminali meno sociali. Uno di questi, che precedentemente era scappato due volte insieme ad altri amici, la prima uccidendo un contadino e la seconda dando fuoco a una chiesa, venne riconosciuto alcuni anni dopo da un abitante del luogo agli arresti a Baku, come uno di quelli della polizia segreta che lo avevano interrogato» (p. 338). Commenta amaramente Conquest a tale riguardo: «È davvero una terribile ironia il fatto che bambini i cui genitori erano stati uccisi dal regime venissero indottrinati e brutalizzati fino a divenire i più terribili agenti di quello stesso regime» (Ibidem).

 

La guerra poteva essere condotta anche organizzando «[…] “campi di lavoro per bambini”, vale a dire campi di prigionia ai quali un bambino poteva essere condannato ufficialmente» (p. 335) o internandoli «[…] nelle normali prigioni o nei campi per adulti. Un carcerato ricorda un bambino di nove anni nella sua stessa cella della prigione di Char’kov, insieme agli adulti» (Ibid.) o colpendo duramente «[…] anche i bambini senzatetto che non erano dei “criminali”[…]. Nel marzo 1933 alla stazione ferroviaria di Poltava un vagone speciale venne collocato su un binario secondario, e tutti i bambini che si affollavano intorno alla stazione in cerca di cibo vi vennero cacciati sopra e tenuti sotto sorveglianza. Ce n’erano circa settantacinque, e vennero dati loro dei chicchi tostati di surrogato di caffè e un po’ di pane. Morirono rapidamente, e furono seppelliti in fosse scavate nel terreno. Un impiegato della ferrovia commenta: “Questa procedura divenne in quel periodo così comune che nessuno vi prestava la minima attenzione”» (pp. 335-336). La stessa sorte toccò nella primavera estate dello stesso anno, a «[…] circa tremila orfani di età tra i sette e i dodici anni, figli di kulaki fucilati o deportati» (p. 336), a Verchnedniprovsk, sul Dnepr.

 

Quanti furono i bambini morti?

Quanti furono i bambini vittime della carestia ucraina e insieme della malvagità del sistema comunista? Secondo Conquest, «si può quindi ragionevolmente concludere che, dei sette milioni di vittime della carestia, circa tre milioni fossero bambini, la maggior parte dei quali molto piccoli […].

Alla cifra di tre milioni o più di bambini periti nel 1932-34, vanno aggiunte le vittime della dekulakizzazione. Se, in base alle nostre valutazioni, possiamo calcolare tre milioni di vittime avutesi nel corso di tale operazione (senza contare gli adulti morti successivamente nei campi di lavoro), tutte le valutazioni concordano sul fatto che la percentuale di bambini deceduti sia stata molto alta, complessivamente non meno di un milione, e anche in questo caso si trattò nella maggioranza dei casi di bambini molto piccoli. A questo infanticidio di quattro milioni e più di vittime vanno aggiunte le vite di quei bambini rovinate o profondamente segnate in vario modo che abbiamo considerato precedentemente, ma in questo caso qualsiasi sistema di calcolo risulta inadeguato» (pp. 342-343).

 

 

Davanti a questa strage — già ricordata da Giovanni Paolo II (1978-2005) nel 2001, durante il suo viaggio apostolico in Ucraina, quando parlò di quegli  «[…] anni terribili della dittatura sovietica e [del]la durissima carestia degli inizi degli anni trenta, quando il vostro [degli ucraini] Paese, “granaio dell’Europa”, non riuscì più a sfamare i propri figli, che morirono a milioni» [GPII-1] —  mi paiono totalmente condivisibili i sentimenti che hanno ispirato l’animo dello stesso Pontefice nella redazione del messaggio inviato nel novembre del 2003 ai cardinali Lubomyr Husar e Marian Jaworski, arcivescovi maggiori rispettivamente degli ucraini e dei latini di Lviv, in occasione del il 70° anniversario dell’Holodomor, la «[…] grande carestia provocata in Ucraina durante il regime comunista […] [,] un disumano disegno attuato con fredda determinazione dai detentori del potere in quell’epoca» dove «[…] milioni di persone hanno subito una morte atroce per la nefasta efficacia di un’ideologia che, lungo tutto il XX secolo, ha causato sofferenze e lutti in molte parti del mondo» [GPII-3]. Di fronte a «[…] quanti sono morti a causa di un dissennato disegno omicida» (Ibidem), a Giovanni Paolo II — e valga come esempio di riattivazione di quella ovvia pratica culturale, tanto conforme alla recta ratio e al buon senso quanto da anni non esercitata soprattutto dal milieu cattolico cosiddetto «democratico» e consistente nel risalire dagli effetti alle cause originarie, cioè ai principi che li hanno generati — «tornano alla mente le forti parole del mio [Suo] predecessore il Papa Pio XI [(1922-1939)] di v. m., il quale, riferendosi alle politiche dei governanti sovietici del tempo, distingueva nettamente tra governanti e sudditi e, mentre scagionava questi ultimi, denunciava apertamente le responsabilità del sistema “misconoscitore della vera origine della natura e del fine dello Stato, negatore dei diritti della persona umana, della sua dignità e libertà” (Lett. enc. Divini Redemptoris [18 marzo 1937], II: AAS 29 [1937], 77)» (Ibidem).

 

Guido Verna

 

 

 

[RC-1] Robert Conquest, Raccolto di dolore. Collettivizzazione sovietica e carestia terroristica, cit., pp. 327-343. Tutti i riferimenti di pagina nel testo di questo paragrafo rimandano a quest’opera.

[RC.2] Robert Conquest, Stalin. La Rivoluzione, il Terrore, la guerra, cit., nota 11, p. 186.

[VK] Viktor Kravchenko, Ho scelto la libertà, trad.it., ediz. condensata dall’autore, Longanesi, Milano 1949, p. 69.

 

[VS] Varlam [Tichonovic] Šalamov (1907-1982), I racconti della Kolyma, trad. it., Adelphi, Milano 1999, p. 488.

[GPII-1] Giovanni Paolo II,  Discorso ai rappresentanti della politica, della cultura, della scienza e dell’impresa nel Palazzo Presidenziale [23 giugno 2001]

[GPII-2] Messaggio in occasione del 70° anniversario dell’Holomodor, indirizzato ai cardinali Lubomyr Husar, arcivescovo maggiore di Lviv degli Ucraini, e Marian Jaworski, arcivescovo di Lviv dei Latini, il 23 novembre 2003, Solennità di Nostro Signore Gesù Cristo, Re dell’universo. Vedi il documento in L’Osservatore Romano, 5-12-2003

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