COME FINISCONO I FIUMI (2 di 2)
di Guido Verna
- Il Danubio
- L’Inn
- Passau
- Il ču
- Come finiscono i fiumi. E come può finire la vita degli uomini…
- Passau
A tutto questo pensavamo, io e Grazia, seduti su quella panchina di Passau, guardando la punta arrotondata di quel triangolo di terra bagnato a destra dall’Inn e a sinistra dal Danubio — irrobustito solo qualche metro prima dall’Ilz — che proprio lì, oltre quella punta, si abbracciavano e si mettevano insieme per il lungo viaggio che li aspettava.
Anche qui, però, avevamo anzitutto un altro problema da risolvere: perché, oltre la punta e fino al Mar Nero, quell’unico fiume si chiamava Danubio e non Inn? Eppure — come aveva notato tanto tempo fa il dottor Scheuchzer [Johann Jakob, medico e naturalista svizzero (1672–1733)] ma che era evidentissimo anche ai nostri occhi — «[…] l’Inn, a Passau, è più ampio, più ricco d’acqua e più profondo del Danubio ed ha anche un percorso più lungo alle proprie spalle.[…] Dunque [— concludeva Magris —] il Danubio è un affluente dell’Inn, e Johann Strauss ha composto il valzer del Bell’Inn blu, che oltretutto potrebbe rivendicare a maggior diritto quel colore?» (CMA, p.143).
Quel declinante pomeriggio d’agosto, però, quel “blu” non c’era né nell’Inn né nel Danubio, per cui tra i due non poteva esserci nessuna tensione di origine cromatica: sarà per questo che, incontrandosi e abbracciandosi, ci parevano vecchi amici, lenti, sornioni e contenti di proseguire insieme. Non provammo nemmeno a verificare la soluzione del problema “nominalistico” — perché questo problema ha una soluzione (ma è la soluzione?) — e ci contentammo solo di ricordarla sorridendo. «Per fortuna mi [a Magris] soccorre […] la scienza, la percettologia, secondo la quale se due fiumi mescolano le acque viene considerato fiume principale quello che alla confluenza forma un angolo maggiore col corso che procede. L’occhio percepisce (stabilisce?) la continuità e l’unità di quel fiume e percepisce l’altro come un suo affluente. Affidiamoci dunque alla scienza ed evitiamo tutt’al più, per prudenza, di osservare troppo la confluenza delle tre [compreso, cioè, l’Ilz, che qualche decina di metri prima era affluito nel Danubio] acque a Passau e di verificare troppo l’ampiezza di quell’angolo, perché l’occhio, a furia di fissare a lungo un punto, si vela e sdoppia le figure, mandando a pallino la chiarezza della percezione e rischiando di provocare brutte sorprese al viaggiatore del Danubio»(ibidem).
Stava pian piano facendo buio. Ma vedevamo ancora bene come l’Inn venisse giù rigoglioso e forte, mentre il Danubio, pur già riempito dall’Ilz, scendeva al contrario più timido, ancora acerbo. E come, appena dopo la punta, si celebrassero insieme la morte dell’Inn e l’esplosione rigogliosa del Danubio, che assumeva possanza e dignità da grande fiume. La morte dell’Inn era però lenta, non istantanea, con quella sorta di desiderio di permanenza e di conservazione dell’identità visibile per molti metri e che traspariva dal suo colore grigio cupo, che sembrava non volesse saperne di mischiarsi con acque di altro colore.
Ci trovammo a pensare — guardando da quella panchina il grande fiume che pareva portarsi via lontano anche la luce del giorno — come, in fondo, la fine dell’Inn fosse una fine “bella”: aveva spento il suo orgoglio e riversato tutto sé stesso e la vigoria accumulata nella sua non lunga vita solitaria, dentro altre acque. “Insieme”, il Creatore aveva assegnato ad esse un tragitto e un compito molto più estesi. Niente andava sprecato ma tutto si incrementava, per bagnare altre terre e far navigare altri popoli. L’Europa cristiana doveva andare avanti…
Era quasi sera, ormai. Il ristorante all’aperto, che avevamo scelto sulla piazza del Rathaus per la cena, ora era pieno di gente e di luci, c’erano buoni odori che attraversavano l’aria e la grande birra di Passau sembrava aver già messo tutti in allegria.
Sulla facciata del Rathaus, vedemmo di nuovo i segni dei livelli delle varie inondazioni riportati: 1501, 15 agosto, il massimo, al culmine dell’arco a sesto acuto della vicina finestra; e poi, via via a scendere, fino all’8 settembre 1920. Quest’anno il “danubiometro” si arricchirà di una nuova indicazione.
Il mattino dopo, col sole che annunciava una bellissima giornata, tornammo a rivedere “quella” panchina, questa volta però dall’alto, dalla prua della Regina Danubia che lentamente si muoveva verso Linz. Dall’imbarcadero davanti al nostro albergo, sotto il castello, avevamo navigato il “piccolo” Danubio fino a doppiare la punta del triangolo, dove, all’improvviso, il “piccolo” Danubio si trasformò nel “grande” Danubio. E per un tratto non brevissimo, leggemmo davanti a noi la voglia dell’Inn di non essere subito dimenticato, di voler vivere ancora un po’, fin quando il suo colore si confuse con il colore dell’altro e divennero un colore solo: il Danubio aveva
imposto definitivamente la sua identità.
Guardando indietro, il profilo di Passau era bellissimo. Denotava la sua storia, la sua forza e la sua dolcezza. Capivamo perfettamente, oggi, perché «Passau è una città fantastica, che crederesti inventata da qualche xilografo quattrocentesco, […] un esempio di come natura e uomini possano trovare insieme soluzione ai quesiti del vivere, plasmarsi a vicenda, e l’architettura modellarsi reciprocamente con la vita» (PBU).
A Passavia, la più grande diocesi del Sacro Romano Impero, era stata «[…] gaia [la] vita dei chierici — fra musica, funzioni liriche, cioccolata, bonbons e galanterie — […] [e] grande [il] numero di birrerie e la condiscendenza delle ragazze, Naiadi del Danubio» (CMA, p.136); forse anche per questo, «[…] Enea Silvio Piccolomini, divenuto Pio II, [arrivò] a dire che era più difficile diventare canonico a Passau che papa a Roma » (ibid., p.135).
Non ci volle molto perché il ricordo dei due fiumi svanisse davanti al fascino del “grande fiume” che si apriva davanti a noi.
Nel silenzio e nel verde del paesaggio danubiano, mi ritrovai però a cercare nei ricordi letterari un altro fiume, che improvvisamente mi era tornato in mente, come un’ombra, e che tanto tempo fa mi aveva indotto a qualche riflessione anch’essa “fluviale”. Ma come spesso accade alle ombre, anche questa fece prima a svanire che a prender corpo, anche perché il sole di quel giorno era ormai diventato luminoso e faceva luccicare le acque del “grande fiume” che la Regina Danubia solcava placidamente.
- Il ču
Qualche giorno fa, all’inizio di giugno, — e proprio mentre il livello dell’acqua batteva ogni record nella Passau alluvionata — per una provvidenziale combinazione, ho ritrovato l’altro fiume.
Avevo ripreso in mano un vecchio romanzo di Solgenitsin, Padiglione Cancro, letto in gioventù, allo scopo di far riemergere la figura luminosa di un medico che durante il comunismo, con un po’ di fortuna ma con molto coraggio, era riuscito a rimanere in piedi come libero professionista. Ho ritrovato con piacere quel dottor Orèščenkov, che per sé non aveva mai desiderato il successo e la gloria — perché «la gloria impedisce di curare come un abito troppo sontuoso impedisce la libertà di movimento» — bensì «[…] solo una targhetta d’ottone sulla porta e un campanello accessibile a qualsiasi passante» (ALS, p.304).
Insieme al dottore, ho però ritrovato anche Olèg Kostoglòtov il personaggio principale, che sognava non di andare nelle grandi città, a Leningrado o a Rio de Janeiro, ma più umilmente e amorevolmente sognava di tornare al suo paese, nel suo «[…] angolo sperduto e modesto: Uš-Terék [dove poter] dormire su una panca, sotto le stelle, […] [e svegliarsi] la notte [e] […] sapere l’ora dalla posizione di Pegaso e del Cigno [e] vedere le stelle e non i fanali del “campo”» (ibid., p.224).
Nel suo paese c’era anche un fiume a riempire i sogni di Olég: «[…] quando scema la calura, [scenderò] per il sentiero nella steppa, fino al fiume ču, e dove l’acqua è profonda, che arriva sopra al ginocchio, sedermi sulla sabbia del fondo e rimanermene a lungo così, a fare una gara di immobilità con l’airone che sta sull’altra sponda» (ibidem).
Il fiume sognato da Olég non era tuttavia un fiume qualunque, un fiume come gli altri, perché «il nostro ču non raggiunge né il mare, né un lago, né una qualche grande distesa d’acqua. é un fiume che muore tra la sabbia! Un fiume che non sfocia in un luogo, ma che distribuisce le sue acque migliori e le sue migliori forze, strada facendo, a caso. Amici! Non è forse l’immagine delle nostre vite di detenuti, cui non è concesso fare nulla, destinate come sono a spegnersi oscuramente? Il meglio che abbiamo è quell’unica ansa del fiume nella quale ancora non ci siamo disseccati e tutto il ricordo di noi sta in due palmi d’acqua ed è ciò che ci siamo dati in incontri, parole, conforto» (ibidem).
Il fiume di Oleg era proprio “quel” fiume che finalmente avevo ritrovato…
- Come finiscono i fiumi. E come può finire il fiume della vita degli uomini…
Olég ragionava da detenuto del Gulag ed era comprensibile.
Ma quanti, oggi, da uomini “liberi”, singoli o in associazione, per orgoglio e pigrizia e disprezzo altrui, si sono ridotti a quell’ansa e a quei due palmi d’acqua? Quanti, per non inserisci nel grande flusso della vita, perché magari costretti alla seconda fila e a non essere primattori, hanno preferito il ču all’Inn?
Si può finire — soffocando il proprio orgoglio e mettendo in gioco la propria generosità — più “grandi” e andare più lontano, a bagnare terre e popoli nuovi.
Oppure si può scegliere di spegnersi lentamente e, infine, morire nell’acquitrinio e nella melma da sé stessi prodotti.
Guido Verna
24 giugno 2013, festa di S.Giovanni Battista
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[CMA] Claudio Magris, Danubio, Garzanti, Milano 1990.
[PBU] Piero Buscaroli, Paesaggio con rovine, Camunia, Milano 1989, p.114.
[ALS] Alexander Isaevič Solženicyn, Padiglione cancro, trad.it., Newton Compton, Milano 1994.
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