di Carla Vanni

 

Ieri, nel corso di un interessante evento organizzato da Alleanza Cattolica presso la Sala Stampa della Camera dei Deputati, ho avuto la Grazia di ascoltare il Dottor Paul Bhatti, fratello di Shahbaz. Il Ministro pakistano fu assassinato nel 2011 ed è già dichiarato Servo di Dio dalla Chiesa Cattolica.

 

Servo di Dio Shahbaz Bhatti
     Lahore, 9 settembre 1968 – Islamabad, 2 marzo 2011

Il Prof. Marco Invernizzi, Reggente Nazionale di Alleanza Cattolica, ed altri dirigenti assieme all’Onorevole Alessandro Pagano hanno invitato a parlare l’illustre testimone ed un gruppo di politici italiani, tutti disponibili a farsi carico dell’affermazione della libertà religiosa in tutto il mondo.

Foto dell’evento, gentilmente concessa da Alleanza Cattolica

Raccomando alla protezione della Madre di Dio chiunque si trovi nell’impossibilità di professare la propria fede in libertà.

Il Dottor Bhatti ha richiamato la nostra attenzione sul reato di blasfemia, certamente anche a proposito di Asia Bibi ma non solo, raccontandoci come sia regolato…o meglio sregolato nel suo Paese.

In tutti i Paesi musulmani, anche in quelli moderati, avanzare una critica all’Islam, al profeta o a qualsiasi fatto riferentesi alla religione islamica è il reato per eccellenza, spesso la condanna prevista è la pena di morte.

Gli obiettivi di queste calunnie sono certo prevalentemente i Cristiani: il Dottor Bhatti ci ha raccontato di un dissidio fra due amici, uno musulmano e l’altro Cristiano, risolto con l’assalto dei musulmani all’intero quartiere Cristiano e di come siano state bruciate le case abitate da chi professava Cristo. Il tutto provocato dalla autoreferenziale affermazione del musulmano circa una palese blasfemia da parte del Cristiano. E fine dei giochi: la folla ha preso in mano la questione ed innumerevoli Cristiani si sono ritrovati senza un posto per vivere.

Il Dottor Bhatti ci ha raccontato anche degli improvvisati incendiari o esecutori della pena di morte che vengono poi celebrati come eroi nazionali.

Detta così, una logica anche se inaccettabile ci sarebbe.

Ma il reato di blasfemia è un grimaldello mille usi, il cui utilizzo non viene risparmiato neppure fra musulmani e neppure nei rapporti familiari.  Questo aspetto ieri è stato sicuramente trattato ma qui, anche per la mia personale esperienza, voglio aggiungere qualcosa.

Premetto che trascinare un correligionario davanti ad un giudice è cosa gravissima per la religione islamica: bisogna usare una particolare prudenza, fare memoria del dio comune e cercare di evitare il conflitto in tutti i modi. E qui non si può certo dar loro torto, estendendo però i benefici di questi scrupoli a chiunque, anche agli infedeli. Condizione questa evidentemente non prevista.

Quel reato, però, è la chiave per tutte le porte: o le abbatte o le rinserra. Qualsiasi questione viene risolta, o minacciata di essere risolta con quel mezzo. Non importa chi siano i contendenti, ovviamente anche della medesima religione: colleghi, amici, parenti poco importa. “Hai parlato male dell’Islam…” e tutto si tranquillizza all’istante: potremmo dire che vinca chi pronunci per primo la fatidica frase.

Eredità, adulteri, invidie, contese di varia natura si risolvono spesso così. Nei Paesi moderati, i giudici conoscono ovviamente queste dinamiche e spesso infliggono pene relativamente miti, mettendo di mezzo Dio e la Sua misericordia.  E ci azzeccano più di quanto non ne siano consapevoli.

Per cronaca, devo riferire che stava per capitare anche a me, una volta sola e nell’Africa mediterranea, ma per grazia di Dio ero imparentata con una famiglia molto stimata e solo per rispetto ad essa non mi è capitato nulla.  Ma la frasetta è stata rivolta anche a me per una questione su cui avevo detto la verità e, cosa peggiore, proprio da un altro italiano vissuto là abbastanza a lungo da aver imparato il giochino. Il mio rischio era doppio: il primo per blasfemia, il secondo per lo sguardo benedicente che avrebbero avuto nei confronti di un non musulmano che, per difendere Islam, accusava una sua simile. Io ho semplicemente risposto che stava dicendo il falso e la cosa, grazie a Dio, è finita là.

Anche la questione della famiglia è importante: si potrebbe quasi dire che da quelle parti l’ortodossia sia direttamente proporzionale all’altisonanza del cognome. Queste accuse non vengono rivolte quasi mai contro appartenenti a famiglie importanti perché, da accusato che fosse, il vip presunto blasfemo denuncerebbe una blasfemia più blasfemia a carico del suo accusatore e, a meno di uno scontro fra giganti che normalmente impegna altri scenari, quest’ultimo finirebbe malissimo. Si sono verificati alcuni casi, ma di un numero veramente irrilevante, finiti male per il denunciato.

Il problema, evidentemente, non è tanto la minaccia ma la gestione di quanto accade dopo.

Molto raramente, e per questo onore sia reso al Pakistan almeno per la causa Bibi, queste denunce vengono trattate correttamente. Spesso i giudici si accontentano della voce univoca dell’accusatore, in quanto ordinare indagini minuziose sulle modalità del reato potrebbe far pensare ad una certa resistenza da parte del giudice a condannare il blasfemo: il ché lo trasferirebbe istantaneamente dal suo scranno al banco degli imputati. Nella più benevola delle ipotesi, nell’arco di qualche mese non lavorerebbe più.

Quindi generalmente l’accusato diventa condannato all’atto stesso della denuncia. Il Dottor Bhatti, appunto ieri, ci riferiva di centinaia e centinaia di altre persone nella medesima condizione di Asia Bibi: per lo più analfabeti incapaci evidentemente di una qualsiasi analisi critica verso l’Islam, finiti in carcere per una denuncia che tutte le intenzioni poteva avere tranne quella di rendere culto a Dio. E’ chiaro quindi che nella grande parte dei casi basta veramente un ronzio e la controparte finisce dentro.

C’è anche da aggiungere, Pakistan docet e non da solo purtroppo, che quando i giudici decidono correttamente, il martelletto se lo prende la folla e lo usa senza troppe attenzioni, come abbiamo visto. Non è difficile infiammare qualche centinaio di migliaia di persone con la minaccia della gheenna o paventare le possibili ripercussioni su chi non si schierasse immediatamente con i modi che ben si conoscono.

Nessuno è tranquillo, mai. Addirittura, la gratuità così radicata fra noi viene spesso guardata con sospetto, scambiata con una malcelata volontà di dare una lezione su come si dovrebbe stare al mondo, quindi di critica alla loro religione. Per non parlare di quando la semplice cortesia dei modi può provocare queste reazioni. Ed essendo tutto… o meglio, dovendo essere tutto regolato al millimetro dalla religione, cosa si trovi alla fine di questo ingorgo mentale è chiaro, almeno la conclusione è logica. Rarissimi i rapporti che si possano intrattenere con tranquillità: ovunque e comunque aleggia questa minaccia, che può piombare addosso scagliata anche dai più insospettabili, come è capitato a me.

Non è certo da escludere l’esistenza di qualche oasi felice la cui collocazione non conosco, ma la realtà quotidiana, quella con cui bisogna confrontarsi nelle situazioni più familiari o più complesse, è questa: musulmani verso altri credenti, musulmani contro musulmani, altri credenti contro altri credenti, l’uso di questa scorciatoia è ben gradito a chiunque, complice un’amministrazione della giustizia che si commenta da sola. Sia per travisato rispetto della propria religione o per curare interessi collocati molto  più in basso, si sa benissimo che la strada maestra è quella ed è sempre molto trafficata.

Una conoscenza approfondita dei loro usi e costumi ed una grande prudenza nel parlare sono strumenti da non lasciare a casa per farvi felicemente ritorno. Inshallah, naturalmente.

 

 

 

 

 

 

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