Qualche considerazione previa sul fenomeno dell’immigrazione.
di Guido Verna
10 gennaio 2001
Durante l’Università avevo amici del Malì e dell’Irak. Ho fatto rischiare qualcosa ai miei giovani figli per aiutare in Albania quel popolo appena uscito dall’inferno comunista. Mia moglie dedica il suo tempo libero all’UNITALSI. Come successore di Giovanni Paolo II – quando sarà, speriamo il più tardi possibile – preferiremmo, io e tanti amici, il Cardinale Gantin al Cardinal Martini. Non sono stato colto da un raptus autoreferenziale, ma, affrontando il tema dell’immigrazione, ho solo ritenuto di dover fare, per cenni, una premessa fondativa e chiarificatrice: come ogni italiano cattolico, anche il sottoscritto ritiene ogni uomo fatto a immagine e somiglianza di Dio, qualunque siano le sue condizioni di salute o il colore della sua pelle o la nazione di provenienza. Aggiungo, ad ampliamento della premessa, che, ben prima che il problema degli immigrati diventasse acuto, con congruo anticipo ne abbiamo valutato associativamente la ineluttabile necessità storica, traendone da molto tempo il convincimento che il nostro futuro e quello dei nostri figli dipende “anche” — forse “soprattutto” — proprio dagli immigrati.
Ma ne dipende nel bene e nel male; questa dipendenza “qualitativa”, però, non è casuale, bensì sarà conseguente alle scelte “politiche” e culturali alla base dell’impostazione del modello integrativo. L’orizzonte di responsabilità vede insieme non solo il popolo italiano e la miscela degli immigrati (perché qualche responsabilità debbono assumerla anche loro): tra di essi, a fare da cinghia, ci sono i responsabili del governo della nazione, i costruttori “politici” — e quindi “giuridici” — delle regole dell’armonizzazione e, quindi, dell’armonia.
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Purtroppo, anche in questo ambito che rischia di diventare drammatico, la presenza massiccia di residui ideologici — la “dialettica”, lo scontro “motore della storia”, trasferita dagli opposti padrone/operaio a quelli italiano/immigrato —, combinata con la permanente egemonia culturale dei figli di tale dialettica, fa velo impermeabile all’esercizio del buon senso e di quelle regole “naturali” — cioè inerenti la natura dell’uomo, di “ciascun” uomo —, che poggiano sul dato reale piuttosto che su chiavi interpretative, di matrice, appunto, ideologica. Se poi a questa combinazione vanno a sommarsi, da un lato il machiavellismo di basso profilo di chi coltiva (si tratta sempre degli stessi figli…) la speranza che gli immigrati possano rimpinguare i loro periclitanti consensi elettorali, dall’altro l’interesse più sottile verso la erosione degli elementi identitari di un popolo che traspare dai modelli mondialisti costruiti dalla finanza, si può agevolmente pre-vedere il clima di pericolosa convivenza che si rischia di instaurare.
Da quest’ultimo punto di vista, non è un caso che i gestori del nuovo ordine siano stati scelti proprio tra quelli che nell’internazionalismo non solo avevano trovato l’humus vitale, ma lo avevano assunto come il finis operis, la prospettiva escatologica, il termine della storia, quando — tutti essendo finalmente uguali e tutti essendo finalmente proprietari di tutto — la dialettica avrebbe ceduto per sempre il passo alla pace del paradiso in terra. Quando sentiamo i figli di questa prospettiva parlare di società “multiculturale” va tenuto ben presente questo elemento di base della loro “cultura madre”; un elemento che, a mio parere, non è stato per nulla rimosso ma solo diversamente orientato e strutturato. Con “multiculturale”, sostanzialmente, mi pare che intendano l’organizzazione sociale derivante non tanto dalla presenza di più culture, quanto piuttosto dalla diluizione, fino al dissolvimento, di ogni loro pretesa di rappresentazione del vero; una società infine destrutturata e liquefatta dal pensiero debole, cioè una società “nulloculturale”. É la conseguenza sociale — e non poteva non essere così — dell’itinerario già in essere nel campo religioso. All’inizio: “Dio non esiste, imponiamo l’ateismo”; poi, però: “siccome la gente continua a crederci, invece che un Dio, gliene diamo mille; a chi vuole Dio, diamo addirittura gli dei”. E questa umanità che continua ad aver voglia di sacro, invece che farla morir di fame, la fanno morire di indigestione.
É chiaro come una società “multirazziale” (userò il termine improprio “razza” solo per brevità, adeguandomi al linguaggio comune più consueto) sarebbe serenamente vivibile se armonizzata all’interno di una cultura storicamente incarnata e perciò dominante (a meno di non ritenere che ogni “razza” abbia una propria esclusiva e definitiva cultura: ma, grazie a Dio, non ho mai sofferto di determinismo “razziale” — più volgarmente: di “razzismo”); il problema, però, non è in riguardo alla “multirazzialità” bensì alla multiculturalità: i termini non sono evidentemente fungibili. La cultura è una visione del mondo che risponde a tutte le domande dell’uomo e che si esplicita nelle sue scelte e nei suoi gesti, da quelli strettamente personali a quelli sociali, da quelli giuridici a quelli artistici, da quelli alimentari a quelli dell’abbigliamento. La cultura di un popolo, perciò, è la veste storica che ne traduce l’ethos e che si è costruita insieme ad esso secolo dopo secolo, potremmo dire gloria dopo gloria ma anche sangue dopo sangue. Questo, evidentemente, vale per tutti gli uomini e per tutti i popoli. Per noi e per chi viene da noi.
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Ora, non credo che ci voglia la laurea in sociologia (magari presa a Trento qualche anno fa) per sapere che qualsiasi comunità umana che veda messi in pericolo gli elementi di identità e di continuità storica — o anche più semplicemente le abitudini e i costumi, le proprie libertà quotidiane, i propri ritmi, cioè non solo il “senso” del suo stare insieme ma anche la “forma” — si ricompatta e cerca di reagire e di difenderli. Le responsabilità politiche sono enormi: se c’è un popolo che non ha mai sofferto di “razzismo” o “xenofobia” è quello italiano, che è fiorito cristianamente sul tronco della Roma antica; sono secoli che siamo abituati agli “altri”.
Ebbene, proprio per gli atteggiamenti ideologici — e le scelte conseguenti — di molti uomini politici, cui fanno eco le idiozie propinate dai talk show politicamente corretti, si corre il rischio di inoculare nel nostro corpo sociale questi virus micidiali. Possibile che tanti politici e intellettuali (e religiosi!) non figli della stessa madre ideologica abbiano così poca conoscenza della nostra realtà sociologica e non capiscano che gli italiani non ce l’hanno con gli stranieri in quanto tali ma solo con l’uomo che ruba o che uccide? Se quest’uomo — poniamo — fosse svizzero o norvegese, gli italiani reagirebbero in modo diverso? Possibile che non capiscano il terribile corto circuito che stanno innestando quando contribuiscono a far coincidere nell’immaginario collettivo l’”extracomunitario” (anche qui uso per semplicità il termine più consuetamente utilizzato) con il delinquente?
É un’ingiustizia tremenda quella si va costruendo proprio ai danni degli immigrati, perché la maggior parte di essi è brava gente. A questo punto, però, è necessario anche il loro intervento: anche gli immigrati per bene devono darsi da fare e prendere le distanze sia dai loro interessati difensori — spesso, i loro consiglieri fraudolenti — sia dai loro connazionali che delinquono, per dimostrare infine di volersi integrare armonicamente, mantenendo sì la propria identità, ma senza pretendere sovraesposizioni o addirittura che in certi casi gli ospitanti rinuncino alla loro. Perché — va una buona volta ricordato — se è giusto rispettare i diritti delle minoranze, è altrettanto giusto che queste rispettino quelli della maggioranza. E se questa ha dei doveri nei loro confronti, anch’essi ne hanno nei suoi. Il modello domestico può aiutare a capire: il padrone di casa ha dei doveri rispetto agli ospiti, ma credo che anche questi debbano rispettare le regole del vivere che trovano vigenti nella casa in cui entrano. Quando in un paese come la Tunisia sono entrato in una moschea, mi sono tolto religiosamente le scarpe (e lo dico senza la benché minima ironia), senza pretendere deroghe per la mia diversità. É solo buona educazione formale o è una regola sostanziale e fondante della vita in comune?
L’aver permesso, da anni, la convivenza sociale di due modelli di comportamento (l’italiano sub lege, l’immigrato extra legem) ha provocato non solo incomprensioni e tensioni ma — non potendo immaginare la legislazione italiana adatta solo a Superman — ha anche sancito, di fatto, l’esistenza di una cultura — questa sì, razzista — che ritiene l’immigrato non in grado di sopportare e, quindi, rispettare le nostre leggi. Con una conseguenza ulteriore: un incremento esponenziale della delinquenza nostrana, che — facendo leva sui bisogni essenziali insoddisfatti (tante volte il cibo e un letto per dormire) e sulla incertezza angosciosa della clandestinità di tanta povera gente straniera — ha trovato in essa molte persone, anche originariamente per bene, disposte a far da manovali del crimine (con il che, per inciso, i “collocatori” hanno potuto anche comodamente rientrare dietro le quinte e sfumare la loro visibilità).
Senza appoggiarmi all’evidenza del mercato della prostituzione o dei furti domestici, mi limito all’elemento meno cruento, che però, nella scala morale dei nostri governanti, rischia di essere forse il più importante: chi non ha visto, — ovunque, al mare, in montagna, in ogni festa religiosa, anche in una festicciola di contrada, con puntualità cronologica degna davvero di miglior causa — la presenza di venditori di “tutto”, questa specie di minimarket ambulante che sono i “vu cumprà”? Bene: è certamente una attività onesta; ma — chiedo — le bolle, gli scontrini fiscali, le contabilità, dove sono? Già sento la risposta: ma come, pretendere anche per questi poveracci il nostro inferno fiscale e burocratico! Giusto, se non altro perché lo soffriamo pure noi, e non è cristiano desiderare che anche altri vi entrino. Ma quelli che riforniscono questi minimarket ambulanti, devono entrarci o no in quest’inferno? O anche per loro vale il modello doppio del sub lege e dell’extra legem? Un grande lavoro nero in un grande mercato nero: e tutto alla luce del sole. Come è possibile?
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Durante le vacanze estive che trascorrevo in un paesino dell’appennino tosco–emiliano, ero diventato amico di un marocchino, bene educato e padre di quattro figli, che si metteva a vendere sotto casa e con cui, per qualche anno di seguito, passavo ogni giorno un po’ di tempo per aiutarlo a vincere la solitudine e la nostalgia; ogni volta, a fine giornata, mentre lo vedevo dalla mia finestra ricaricare il suo emporio su una scassata Peugeot, mi si spezzava il cuore: ma come faceva — con quella scarsità di vendite — a vivere e a mettere da parte qualcosa da mandare a casa? Ma mi chiedevo anche: chi tiene in piedi e rifornisce un’organizzazione così poco redditizia eppure così capillare e pervasiva? Oppure il primo aspetto era meno importante della capillarità sul territorio e della pervasività spinta fino a coprirlo tutto?
Non ho mai avuto risposte a queste domande e alle mille altre che mi assillano pensando a fenomeni connessi all’immigrazione molto più gravi, come la droga e la prostituzione. Io sono cattolico; e nel mio mondo — almeno in quello che ha più udienza sui giornali — sembra quasi che non si debbano far domande, tanto più “scorrette” quanto più sono incisive e tese a capire il perché. I cattolici non devono farsi e fare tali domande: sono contro la solidarietà. La solidarietà — così pare — deve essere silenziosa e acritica; va spalmata ogni mattina sullo spazzolino, salva dalle carie e profuma l’alito. Il proprio, però, perché non impedisce più di tanto la formazione delle carie nei denti degli “altri”.
Il problema, in fondo, è tutto qui. Il mondo cattolico — anche quel poco che è rimasto è il solo che può farlo, senza che ciò sia minimamente motivo di vanto, essendo piuttosto incremento di responsabilità — deve riacquistare la dimensione “totale”: non più solo curare gli esiti, ma anche contribuire a rimuovere le cause. Non più: il mondo moderno che produce malattie e noi gli infermieri del mondo a fornire linimenti. Senza smettere di fare gli infermieri, dovremmo però anche lavorare per cambiare questo mondo; “prima” e non solo “dopo”; e non solo in parrocchia ma anche dove si costruiscono le regole del gioco e si produce il modo di pensare e, quindi, ultimamente di vivere. Chi cura gli ammalati va certamente in Paradiso. Correndo il rischio del rimprovero da parte di qualche cattolico cosiddetto “democratico”, io penso però che S.Pietro accoglierà a braccia aperte anche chi ha operato perché i sani non si ammalassero.
L’identità cristiana del nostro popolo permette di accogliere fraternamente il prossimo straniero, ma, se essa si perde, si perderà anche la possibilità di accoglienza fraterna. Per non perderla, sarebbero sufficienti al momento l’esercizio del buon senso e la comprensione del reale senza paraocchi ideologici o — come si dice ora — “politicamente corretti”. Il nodo culturale da sciogliere — non l’unico, ma a mio parere il più importante — per la soluzione del problema degli immigrati provo a sintetizzarlo e semplificarlo così: se un ” ”extracomunitario” ruba o uccide, è come se rubasse o uccidesse un italiano. Si tratta, in entrambi i casi, di “uomini” — simpliciter e senza specificazioni — ladri, mascalzoni e assassini. È l’unico modo per non immaginare una umanità di serie A e una di serie B. Negli occhi di ogni uomo, qualsiasi sia il colore della pelle e la nazione di appartenenza, c’è una luce divina, perché ogni uomo è fatto a immagine e somiglianza di Dio. Ma proprio per questo, “chiunque” ruba è un ladro e “chiunque” uccide è un assassino. Se nella lotta contro i ladri e gli assassini ci aiuteranno anche tutti gli ”extracomunitari” che li considerano tali (e sono la stragrande maggioranza), il futuro insieme a noi sarà pieno non solo di armonia, ma anche di potenzialità per tutti.
10 gennaio 2001
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