di Guido Verna

 

 

La “chiave” ermeneutica della frase del Governatore Fazio — estrapolata dal suo ormai celebre discorso di Roccasecca su S.Tommaso — che la sinistra ha proposto (imposto?) in termini anti–Berlusconi ha prodotto una immediatezza di echi che mi hanno fatto tornare in mente Il montaggio, quel libro straordinario di Volkoff, letto ormai qualche anno fa.

Io c’ero, ad ascoltare il Governatore. Entrando in Chiesa, appena all’ingresso, avevamo preso da un tavolo la copia già stampata del suo intervento. Dopo il saluto del Sindaco (Arch. Abbate, di AN, ma questo è stato occultato…), il rettore della facoltà di teologia di Lugano, padre Abelardo Lobado — dopo aver simpaticamente chiesto quanto tempo avesse a disposizione — svolge la sua relazione, densa e piena di vibrazioni, in un piacevole italiano a cadenza ispanica. Poi è la volta del Governatore, che — avendo perfetta coscienza del suo ruolo e, quindi, dei rischi di un discorso a braccio — legge, con ritmo quasi monocorde e senza il benché minimo cambiamento, quanto era già agli atti. Comincia prendendo a fondamento della sua “costruzione” una lunga citazione in latino (Summa, I–II, q.105) che riporto tradotta, (aggiungendovi, per meglio inquadrarla, solo questo periodo immediatamente precedente: «Come insegna il Filosofo, esistono diverse specie di governo; ma le migliori sono: la monarchia, in cui si ha il dominio di uno solo, onestamente esercitato; e l’aristocrazia, cioè il dominio degli ottimati, in cui si ha l’onesto governo di pochi: [Unde] perciò il miglior ordinamento di governo si trova in quella città o in quel regno, in cui uno solo presiede su tutti nell’onestà; mentre sotto di lui presiedono altri uomini eminenti nella virtù; e tuttavia il governo impegna tutti, sia perché tutti possono essere eletti, sia perché tutti possono eleggere. E questa è la migliore forma di governo politico, perché in essa si integrano la monarchia, in quanto c’è la presidenza di uno solo; l’aristocrazia, in quanto molti uomini eminenti in virtù vi comandano; e la democrazia, cioè il potere popolare, in quanto tra il popolo stesso si possono eleggere i principi, e al popolo spetta la loro elezione. E questo fu il regime istituito dalla legge divina».

Ciò premesso, il Governatore sviluppa il suo intervento, muovendosi sul piano storico, su quello economico, su quello dei principi e della morale, concludendo che «contro le ritornanti teorie del pensiero debole, o addirittura negativo, sta la necessità, diffusamente avvertita, di un pensiero forte» e che «l’uomo saggio indaga la sapienza di tutti gli antichi». Alla fine applausi di persone importanti e gente comune, di Vescovi e di laici; e poi, sul sagrato, approfittando del sole finalmente caldo, convenevoli e saluti, tranquilli e senza suoni di trombe (né tanto meno di sirene).

Nel breve viaggio verso casa, parlo con mia moglie di alcune perplessità che mi sono nate in ordine a qualche considerazione storica del Governatore ma concludo che non si può avere tutto dalla vita: in fondo è stata una mattina proficua. E poi quel clima, così pieno di calore umano, autentico e senza artifici, a sentire cose “serie” e non polemichette “preelettorali”. Ma quando accendo il televideo, al massimo quaranta minuti dopo, comincio ad avvertire — non so se al primo o al secondo rigo — le prime avvisaglie del “montaggio”: Veltroni condivide le dichiarazioni del Governatore; basta con Berlusconi, è ora di approvare la legge sul conflitto di interessi. Sorpreso, guardo allora i telegiornali; se non è la notizia di apertura, è la seconda. Le dichiarazioni di Fazio stanno provocando lo scontro tra sinistra e Polo.

Sono in crisi. Io c’ero e non ho capito nulla. Va bene che Veltroni è diplomato in scenografia o qualcosa di simile, ma questa sua capacità ermeneutica all’interno del quadro tomistico mi umilia.

Prendo il mio librettino e rileggo il passaggio incriminato: «la ricerca dell’interesse individuale e del profitto non si concilia infine con lo svolgimento di funzioni pubbliche, che debbono essere guidate invece da obiettivi di interesse generale». Continuo a non capire. Mi pare assolutamente evidente (ed ovvio, almeno per chi, come Fazio e come me, non ha una moralina stretta stretta) che, nell’esercizio politico, il bene comune — e non certo l’interesse individuale e il profitto — debba essere il fine dell’agire. Dov’è la novità? Ma, soprattutto, dov’è Berlusconi? C’è Berlusconi come ci sono tutti, Veltroni, Fini, D’Alema, l’ultimo dei peones e il più modesto dei consiglieri comunali. Perché dall’esercizio della funzione pubblica, l’interesse individuale e il profitto possono trarlo tutti, chi più chi meno, chi ha tante fabbriche e chi ha un pezzo di terra, chi non ha niente e chi ha un bar, chi ha parenti da sistemare e chi è single.

Ma sapete cosa è scritto prima della frase incriminata? Questo: «La libertà di azione è necessaria per il prosperare di un’economia di mercato. Non devono venir mai meno, nell’operare, economicità e correttezza; le motivazioni possono ricondursi non soltanto all’egoismo, ma anche alle categorie del dovere morale, del servizio, dell’altruismo. Agire secondo criteri di efficienza e di economicità è anche profondamente morale perché in tal modo si fa il miglior uso delle risorse disponibili, da parte dei singoli e della società». Stava forse parlando dell’Ulivo, il Governatore?

I telegiornali della sera e i titoli dei giornali del giorno dopo confermano e amplificano il “montaggio”. Riporto solo i titoli del Corriere della sera: «Conflitto di interessi, monito di Fazio»; «Fazio: politica e profitto inconciliabili»; «O ha detto una banalità o parla del Cavaliere». Quest’ultima frase è tratta da un’intervista a Salvati, «area liberal dei ds, professore di quello che fu l’Ulivo», che — pensate un po’ — non ha dubbi sulle parole del Governatore!

Che tristezza! Mi spiace molto per il Governatore, a cui viene sottratta la libertà — e il piacere spirituale — di parlare serenamente e profondamente di S.Tommaso e di ripetere principi morali e norme di comportamento che fanno parte da sempre della dottrina sociale della Chiesa e che, quindi, per lui, oltre ad essere veri, sono ovvi. Dover temere che Veltroni detti la “chiave di lettura” di un suo discorso su S.Tommaso e che altri acriticamente la raccolgano — fino alla quanto meno poco educata assiomaticità di Salvati — è davvero una punizione e una sofferenza che non merita.

 

14 marzo 2000

 

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