di Franco Maestrelli
Islam religione di pace o di guerra? Un’analisi dello “jihad”.
“Di fronte ad Allah non ci sono bestie peggiori di coloro che sono miscredenti e che non crederanno mai… Se quindi li incontri in guerra, sbaragliali facendone un esempio per quelli che li seguono, affinché riflettano” (Sura VIII, 55-60)
La religione islamica è entrata prepotentemente nelle discussioni quotidiane ormai da molti anni, prima a causa degli attentati di Al-Qaida e successivamente delle stragi dello Stato Islamico e per l’imponente immigrazione di musulmani nel nostro paese con conseguente richiesta di moschee nelle nostre città. Un tema che fino agli anni Novanta era perlopiù confinato in ambito culturale si è trasformato in dibattito sui media e nelle conversazioni da salotto. Non è facile quindi per l’uomo occidentale orientarsi tra la lettura tranquillizzante di chi vede nell’Islam una religione di pace (contraddetta ai nostri giorni ma anche nella storia da atti sanguinosi) e chi vede tutti terroristi nel miliardo e mezzo di musulmani nel mondo. Sul dibattito sociologico, religioso e culturale poi si sovrappone pesantemente la polemica politica. La comprensione è complicata ulteriormente dall’assenza nell’Islam di un unico magistero che interpreti univocamente il testo coranico. La secolare divisione tra sciiti e sunniti e la ripartizione in diverse scuole giuridiche e teologiche aggrava ancor di più la confusione nei non esperti, giornalisti inclusi.
Nell’ambito di una collana delle Edizioni Paoline nata in collaborazione con il Centro Federico Peirone di Torino giunge quindi puntuale la pubblicazione di un agile libro intitolato “Jihad. Significato e attualità” scritto da Silvia Scaranari, cofondatrice del Centro stesso.
Il termine jihad (che, si noti, è di genere maschile) viene spesso interpretato come “guerra santa”, suscitando però la reazione degli islamici e di coloro che minimizzano la minaccia del terrorismo che traducono invece il termine come “sforzo spirituale”.
Silvia Scaranari attraverso l’esame del Corano, degli ahadith (raccolte di detti e fatti del profeta Muhammad) e della storia conduce il lettore attraverso un itinerario che permette di comprendere come una teoria appena accennata nel testo coranico diventi una pratica cruenta in alcuni periodi storici, compreso quello attuale.
La parola “jihad” in effetti deriva dalla radice araba JHD che indica lo sforzo teso verso uno scopo e nel Corano ricorre come sforzo interiore e personale per adeguarsi alla volontà divina. Poiché però compito del fedele islamico è di uniformare tutta l’umanità al volere di Allah, questo “jihad” deve avvenire in diverse modalità: quello dell’animo (sforzo personale interiore rivolto al dominio delle proprie passioni), della parola (diffusione della verità islamica), della mano (l’aiuto agli altri incoraggiando il bene e proibendo il male) e della spada (azione attiva di guerra contro l’infedele).
Senza entrare in ardue interpretazioni etimologiche, nella storia e nella rielaborazione giuridica il jihad oggi indica l’azione armata tesa all’espansione dell’islam. E’ un dovere collettivo dei musulmani e questa condizione durerà in eterno poiché la situazione di tregua è solo transitoria, impugnabile non appena si presentino le opportunità di conquista alla “vera fede”di tutta l’umanità. Il “jihad” può essere combattuto anche mettendo a disposizione della guerra i propri beni economici. Da qui l’attuale circolazione sulle reti finanziarie di immensi mezzi, provenienti da ricchi possidenti mediorientali, volti a sostenere sia lo sforzo bellico che il terrorista isolato. Nell’epoca moderna la collaborazione al “jihad” può essere svolta anche attraverso l’uso dei media per orientare l’opinione pubblica diventando un potente strumento di conquista.
I cinque capitoli che compongono il libro di Sivia Scaranari esaminano il “jihad” nel suo significato e nel dibattito infraislamico sulla difficoltà di proclamazione della “guerra santa” che dovrebbe essere indetta dal Califfo, in realtà figura abrogata nel mondo sunnita nel 1924 dal Governo turco di Kemal Ataturk. I successivi capitoli analizzano le diverse forme di “jihad” e le sue trasformazioni nel corso della storia: dallo slancio guerresco degli inizi quando il profeta Muhammad era ancora in vita a quello offensivo dell’epoca delle grandi conquiste che portarono i musulmani in Sicilia, nella penisola ispanica e in tutto il Mare Mediterraneo.
L’attenzione si sposta poi opportunamente sul “jihad” odierno. Le grandi battaglie della Cristianità arrestarono l’espansione islamica e la confinarono in aree lontane dall’Europa provocando la decadenza di quel mondo assoggettato di fatto alle grandi potenze europee. Alla ricerca di una riscossa e di una rinascita dello spirito delle origini, nei primi decenni del Novecento, alcuni pensatori islamici riscoprirono il salafismo (movimento nato nel XVIII secolo in Egitto con forte richiamo ai salaf al-salih cioè “i pii antenati”), il salafismo-jihadista e il ritorno al Califfato che ci introduce negli anni attuali e alla fondazione dello Stato Islamico in Iraq e Siria.
In questa fase osserviamo anche una trasformazione del “jihad” come martirio suicida. Malgrado il Corano condanni il suicidio attraverso l’influenza sciita ai tempi della guerra tra Iran e Iraq anche molte scuole sunnite ora accettano e incoraggiano il martire che sacrifica la propria vita per il trionfo della sua religione.
Di particolare interesse l’ultimo capitolo dedicato alla predicazione del “jihad” attraverso i media, canali televisivi e film ma soprattutto attraverso internet. Anche il ruolo della donna è mutato rispetto alla concezione tradizionale e, a partire dalle grandi manifestazioni femminili contro lo Scià in Iran (che poi si ritorsero contro l’universo femminile), e poi attraverso le guerre in Palestina e Cecenia, la donna oggi ha raggiunto in questa lotta una sua particolare “parità di genere”.
Conclude il libro una breve panoramica dei principali e più noti movimenti jihadisti nel mondo attuale: Hamas in Palestina, Al-Qaida che passa dalla guerra locale a una guerra generalizzata all’Occidente di cui l’attentato alle Torri di New York rappresenta l’esempio più sanguinoso e noto, Boko Aram (che significa nella locale lingua nigeriana hausa “l’educazione occidentale è proibita”), Al-Shabab in Somalia ma con incursioni anche in Kenia e infine il Califfato dello Stato Islamico (abbreviato in occidente con ISIS, traduzione di Al-Dawla al-Islamiyya fi Iraq wa l-Sham divenuto poi IS eliminando i limiti territoriali).
Lo Stato Islamico tra l’altro pubblica in cinque lingue una rivista online intitolato Dabiq, illustrata e ricca di indicazioni su come vivere il vero Islam ma soprattutto a scopo di propaganda per reclutare nuovi adepti anche in Occidente.
Attualmente tutti i movimenti jihadisti appaiono in difficoltà sia nel mantenimento dei territori conquistati in Iraq e Siria sia nello slancio espansivo in Africa ma, come dimostrano gli attentati nelle capitali europee, il mito del “jihad”, come tutti i miti, mantiene tuttora il suo potere di mobilitazione e di fascino in estremisti di aree geografiche anche lontane tra loro e questo mito ci indica che il pericolo non è passato finchè queste nicchie ultra-fondamentaliste inseguiranno il sogno dello scontro finale tra i “cristiani” (termine generico con cui i jihadisti denominano europei e americani senza distinguere tra credenti e laicisti) e islamici, scontro che avverrà appunto a Dabiq in Siria e in cui Allah darà la vittoria ai suoi.
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